Ho perso la speranza. La speranza che l’eclisse di Berlusconi, di questo sole nero della vita italiana, dissolvesse se non le tendenze politiche, almeno la volgarità e la banalità del Paese. Quell’insidia dei cuori e delle menti che non ha bisogno di nudità aperte come un ventaglio di odalische, di farneticazioni, di gesti da trivio e di ostentata pornolalia, ma che invece è più concreta e profonda quando parla con un linguaggio piano, con le movenze educate, con l’apparente modestia del senso comune.
I funerali di don Verzè ci hanno dato un saggio di questi due mondi apparentemente così diversi eppure così contigui nella noncuranza dell’etica pubblica e privata divenuta via via un abbellimento inutile, un enfatico trompe l’oeil che nasconde una realtà diroccata e modesta. Ma pur sempre qualcosa per molta autorefenzialità ntellettuale italiana, così facile a diventare onanismo. Sgarbi, fedele al suo personaggio nella commedia dell’arte berlusconiana, ci dà un saggio di capovolgimento delle parti attaccando i magistrati che vanno contro “un uomo di 91 anni”, come se l’età fosse di per sé un argine morale, un bastione di illegalità. E poi preso da
quella rabbia schiumante che sa fingere così bene, getta il cuore oltre la frase destinata a rimanere segno della sua presenza dentro i media: “ i “ragazzotti” che avrebbero accusato Don Gelmini di violenze si sono fatti toccare volentieri da lui perché puntavano soltanto ai soldi”. Non c’entra nulla con don Verzè, nè spiega come mai don Gelmini avesse questi soldi, ma evidentemente è qualcosa che gli urge dire in difesa di qualsiasi rimasuglio di tonaca. Certo è patetico questo immoralismo piccolo borghese che nasce dal ribaltamento simmetrico dei termini, ma il mugghiare del bue è uguale a quello del toro.Però questi sono rimasugli del teatro che aveva come capocomico il cavaliere e ci si può aspettare di vederne qualche brano da avanspettacolo sprizzare fuori dal vuoto in cui ha avuto la sua massima espressione. Non è questo che sorprende. E’ molto più deludente sentire Cacciari, anche lui al funerale, citare don Milani per assolvere don Verzè: ”Se uno alla fine della vita ha le mani completamente pulite vuol dire che le ha tenute in tasca”. Verissimo, ma qui non si tratta di una macchia, ma delle intere mani che sono state al contempo le mani sulla città. Il potere segreto che ha creato potentati e arricchimenti misteriosi, in un accavallarsi di faccendieri, fondi neri, politici, tonache vaticane, paradisi fiscali e vanità furibonde come quelle dell’aereo privato che don Verzè aveva acquistato. In una parola si tratta della protervia della disuglianza, di uno sfregio alla democrazia.
Non sono affattto “luci e ombre” come sostiene Cacciari. Né sono in questione grandi progetti “scientifici”: si tratta invece di un ambiente che ha drenato un’enormità di soldi alla società nel suo complesso e magari ha speso gli spiccioli nel San Raffaele. Se per trent’anni non avessimo dovuto subire questi clan famelici di denaro avremmo probabilmente molti ospedali come il San Raffaele, molte più intelligenze da gestire e ricerche da intraprendere. Certo è ovvio che Cacciari non difende Verzè, ma se stesso che all’università Vita-Salute del San Raffaele, un bailamme didattico che va dall’igiene dentale a una misteriosa filosofia della mente, insegna Estetica e forme del fare, qualcosa che evidentemente è anche una rassicurante forma dell’ avere.
Così si scopre la natura di quel realismo cacciarista che ha navigato in questi anni dalle aperture alla Lega per giungere al montismo più intransigente e accucciarsi dentro il potere opaco che ha depredato il Paese per molti anni. Com’è diversa la cupola dello Steinhof di Vienna, centro prospettico del libro di maggior successo di Cacciari con quella del San Raffaele. La prima dominava un paesaggio di “uomini postumi” colmi di rimandi e di angosce, qui domina il realismo spicciolo e impotente di chi non va oltre. Quello degli uomini che seguono i funerali perché diventati postumi ai propri sogni.