Annamaria Quarantotto, dopo aver a lungo lavorato nelle farmacie rurali, di campagna e di montagna, esordisce come scrittrice con “Cacciatori di favole”. Nata a Budrio, da sempre interessata al folclore e alle tradizioni popolari, dopo una certosina ricerca bibliografica, ma soprattutto grazie al recupero, dai diretti depositari, dei racconti di un’epoca ormai perduta, ci regala un’opera di vivido interesse che ci catapulta in un mondo pieno di quei simboli che da tempo immemore hanno accompagnato l’uomo. Ecco dunque scorrere nelle pagine del libro le favole della civiltà contadina emiliana e veneta, che costituiscono la “nostra” memoria tramandata di bocca in bocca nelle lunghe notti d’inverno nelle stalle attorno al fuoco, o nelle aie sotto i cieli stellati delle calde estati padane. Con uno stile asciutto ma incisivo, la Quarantotto vaga nella simbologia tra presente e passato, muovendosi con disinvoltura dalla Bibbia agli antichi miti, fino ad arrivare ai giorni nostri. L’autrice si sofferma sul significato profondo e primordiale della favola vista come un regalo per le genti, una sorta di ricchezza morale che è nel contempo insegnamento e risposta ai quesiti e alle situazioni della vita quotidiana. Dalla favola de “Il cestino di fichi” a quella di “Ticlen con la Ticlina” si trae spunto per disquisire sul concetto di dono e ricchezza, che dovrebbe ammantarsi quasi di un uso “sociale”, come cioè di un qualcosa comunque da condividere, anche nelle situazioni di necessità. Un altro filone è poi quello delle favole attente ai bisogni, quelle cosiddette coprolaliche, tra cui si può senz’altro citare la bellissima “La bambolina Poavola e il re”. Tanti sono naturalmente i richiami a quelli dell’uomo, dal cibo al sesso, e soprattutto alla verginità con gli organi sessuali che freudianamente sembrano sovrintendere a tutta la vita umana. Ma anche l’osso diviene oggetto e soggetto di molte favole (“Le tre galline che andavano a nozze”) con i loro rimandi alla morte, alla rinascita, alla resurrezione di cui un chiaro e struggente esempio sono “La penna dell’Animal grifone” e “Il merlo bianco”. Il messaggio di fondo è dunque che la fiaba non è evasione dalla realtà, ma uno sguardo sull’universo al di là d’ogni velo che permette di introdurre simbolicamente quei contenuti che, per cultura o per vergogna, non si riescono ad esplicitare direttamente. In fin dei conti, la favola finisce per adempiere ad una sorta di funzione catartica, grazie alla capacità di raccontare anche le esperienze più dure e tragiche senza opprimere chi ascolta e infondendo, anzi, il coraggio della denuncia, regalando nel contempo un lenimento anche alla sofferenza. Ne viene fuori un libro incantato come i testi di cui si fa custode; antropologia e letteratura al tempo stesso, un’opera che esprime davvero il vitale piacere di raccontare, ma ancor più quello di ascoltare e conoscere.
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Cacciatori di Favole: Imparare dalla Tradizione
Creato il 29 novembre 2011 da Dietrolequinte @DlqMagazinePotrebbero interessarti anche :
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