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Alle scuole medie c’era uno di una classe in più, tale Alfio De Battisti, che mi dissero, mi veniva dietro.
Cribbio! Che fare??
Non era poi male, alto, capello castano corto (allora le mamme non ti facevano uscir di casa con il capello lungo spettinato e l’orecchino, almeno ai maschi), magro. Non un figo badate, ma nemmeno un nerd.
Stava per i corridoi e mi fissava, senza remore, senza pudore, senza vergogna.
E a me, già il fatto che si aspettasse qualcosa da me, che insomma mi tenesse d’occhio, non mi andava giù.
Un giorno venne a chiedermi di uscire, io e lui, il sabato pomeriggio.
Gli urlai in faccia che mi faceva cagare e si non permettersi più di fissarmi.
Ciao ciao Alfio.
In terza media invece si trasferì nella mia classe Daniele Delle Volpi, ah sì, un autentico unico figo.
Di quelli per cui tutte sbavaccano e che suscita ammirazione e sguardi assorti, accompagnati da sospiri.
Mi piaceva un sacco e un po’. Ogni tanto durante le lezioni lo osservavo, la posa scomposta, le magliette slabbrate, le scarpe da ginnastica firmatissime, il ciuffo castano chiaro sugli occhi verdi.
Ma sarei morta piuttosto che parlargli. Insomma, io ero una nullità, lui era il figo della classe. Uno che già fumava fuori dalla scuola, mica poco.
Un sabato mia madre non mi viene a prendere a scuola. Mia sorella credo fosse malata perché non c’era. Poco male, faccio per incamminarmi verso casa, gobba sotto il mio zaino Invicta, quando una Fiesta mi strombazza con il clacson. Mi giro e vedo lui sul sedile del passeggero e un ragazzo più grande al volante.
“Ti diamo un passaggio? Abito vicino a te.”
E come acciderbolina fa Daniele Delle Volpi a sapere dove abito io??
Deglutisco un quintale di saliva.
“No, grazie. Preferisco camminare”
Mi volto e proseguo. Lui scende.
“Allora posso accompagnarti?”
“Va bene” appena bisbigliato.
Mi accompagna a casa. Mi offre una sigaretta che rifiuto. Io mi fisso interessatissima i miei stessi piedi. Mi chiede se domenica pomeriggio andrò a ballare all’Ombelico (eh sì, a quei tempi si andava a ballare alla domenica pomeriggio…)
Oddio, mica lo so se mia mamma mi lascia.
Gli dico sì.
La domenica pomeriggio me lo trovo poi là, in quel buco di discoteca.
“Ti aspettavo” mi dice, e mi appioppa un mega bacio con la lingua che per poco non ci rimango secca.
Ok, sono uscita tre mesi con Daniele Delle Volpi, poi l’ho mollato.
Perché? Perché mi faceva fastidio uscire con il figo della scuola. Tutte mi guardavano, e molte mi odiavano. Ero troppo chiacchierata e lui troppo ambito. Lui ci resta male. “Ci tenevo a te” mi dice. Amen.
Alle superiori, in terza ginnasio (il primo anno), mi imbatto in un tizio che mi ha presentato mia sorella, più grande di me, che si chiamava Mauro. Dice di avermi notata in Corso (a quei tempi si andava a fare le “vasche” al Corso Cavour, in centro), vuole conoscermi. Ok, piacere.
Mica mi molla il tipo. Ma mi piaceva. Aveva un caschetto biondo ed era magro come un picco. Ma cosa più importante, aveva la moto!!! Mica un ciao, un centoventicinque da paura, che rombava che a me pareva una Ferrari! Giri in centro con il centoventicinque di Mauro, fino giù a Ticino. Lui forse aveva altre intenzioni, ma io no. Mia madre mi proibisce di salire sul centoventicinque. Fine della relazione con il bel Mauro. E poi calma piatta, perché ero una semi seria che fra le lezioni e i saggi di danza classica e lo studio avevo poco tempo da dedicare alle cazzate. Poi mi accorgo che Andrea esiste.
Ci troviamo un pomeriggio in studio da suo padre e studiamo greco insieme. Usciamo insieme dallo studio e invece di andare verso casa mi porta ai giardini di Piazza Botta. Sguardi, respiri su respiri. Un bacio.
Son già caduta nella rete. Ci mette un anno a dirmi che era cotto della sottoscritta dalle scuole medie. Evviva. Ho imparato a lavorare a maglia per fargli una sciarpa verde e bianca, lunga mezzo chilometro.
Sono stati anni vissuti insieme, anni belli, condivisi, di gioventù (sigh!) di serate e nottate da Giulio in compagnia, di approcci sessuali ridicoli ok, ma eravamo alle prime armi, di studio compulsivo e baci perugina.
Poi arrivano le aspettative, le pretese persino, arriva la mia malattia.
Più che uscire insieme stava al mio capezzale a tenermi la mano, o a cercare di farmi ragionare, contenere la mia esuberanza spinosa.
Povero Andrea! Fu scaricato pure lui: non che avessi capito cosa volevo dalla vita, solo sapevo che non era lui. Con i suoi enormi strascichi, ne sono consapevole
E poi son partita.
A Copenhagen ho conosciuto un tipo, alto biondo con gli occhi azzurri, danese insomma, che si nascondeva dietro la pelle lattea e gli spessi occhiali scuri. Si chiamava… Morte. Eh, proprio così. Nato il primo aprile per giunta. Una data un destino… Tecnico informatico. Siamo usciti insieme per qualche settimana, ma era troppo “nordico” perché potesse funzionare. Algido, persino più di me. E poi un giorno mi regala una pacco di fagioli surgelati. Si avete letto bene. Credo che solo io al mondo… vabbè. Inutile dire che è tornato single in men che non si dica.
Son tornata a casa, sono andata a vivere a Venezia, un appartamentino a Dorsoduro, qualcosa di modesto e favolosamente bohemiene. Ho conosciuto un amico, lo chiamerò Fabrizio.
Studente squattrinato di Scienze Sociali di giorno, aiuto fornaio di notte. Durante la settimana facevo l’impiegata presso un notaio e la domenica aiutavo in quella stessa panetteria/pasticceria dove lavorava lui, dai suoi zii, a Canareggio. Spesso la notte stavo con lui giù al forno, lo aiutavo un poco, e ridevamo come matti.
Poi mentre il pane e la pizza cuocevano, verso le tre del mattino, ci sedevamo sui gradini verso il canale e fumavamo insieme, mangiavamo brioss ancora calde, fra i silenzi e le confidenze. Noi, e qualche ubriaco di passaggio. La notte è sempre lunga.
Siamo stati bene. Ma alla fine ho dovuto dirglielo, che non ero innamorata. Siamo rimasti amici, e sono felicissima di questo.
Infine c’è stato il Texas, con le sue pianure sconfinate sovrastate da cieli infiniti, ancora scavati nei miei occhi.
E poi una sera newyorchese mi son seduta al tavolo di un caotico ristorante asiatico con un pezzo di figo da buttar via la testa. E’ andata bene, cosa altro posso dire?
Mi ha lasciato il numero senza chiedere il mio, perché lui è uno galante, io l’ho chiamato, abbiamo iniziato a sentirci spesso, poi ogni sera, poi anche ogni mattina. E poi me lo son ritrovato a girarmi per casa in pigiama.
Che sia stato facile non lo posso dire, ma è stato bello. Ci siamo vicendevolmente scoperti, annusati, inquadrati, desiderati.
Insomma, io la prima volta che è venuto fino a Dallas (badate son sei ore di volo andata e sei ritorno) l’ho mandato pure in bianco, mettendolo a dormire nella camera degli ospiti. E non mi ha nemmeno lasciato! Un santo.
Ma quando poi sono andata io a NYC da lui ero un poco presa male. Nessuna camera degli ospiti a Manhattan. Pensavo di prendermi una stanza in hotel, poi alla fine gli e ne ho parlato.
Insomma, gli ho detto, non è che le altre volte mi sia poi piaciuto particolarmente…
Lui ha sorriso, senza dirmi nulla.
Ok. Insomma, magari ho qualche problema io…
Altro sorriso.
Alla fine ho cambiato davvero idea…
E poi c’è stato L’Uomo dei Silenzi, che se ci penso ancora mi si stringe il cuore. Lo so che non è il caso di farci venire dei mal di testa per uno che poi si è comportato così, ma che ci devo fare, non è una scelta razionale, adesso come non lo è stato allora. Credo sia stata una questione di chimica.
Uno sguardo incrociato ogni giorno, in fila per il caffè. E poi un “Good Morning!” da una mattina in poi. E poi un incontro a pranzo, un invito a pranzo, un invito a cena. E poi, inutile dire che lui ha cambiato caffè.
Il vuoto, i cocci, sono rimasti a me. Andare via mi ha aiutato una volta di più, anche se mi ha causato un dolore, dentro, indescrivibile.
Non ero mai nemmeno stata mollata prima di allora, non mi ero mai innamorata. La prima volta, davanti ai suoi occhi, per essere poi usata e buttata.
Capita a tutte, lo so.
E’ capitato anche a me.
Quello che volevo dire con questo post lunghissimo e troppo personale, è che i rapporti interpersonali, e quelli affettivi ancora di più degli altri, sono la cosa più difficoltosa che possa esistere nella vita.
Ci specchiamo negli occhi degli altri, vorremmo riconoscerci, troviamo qualcosa di altero, qualcosa che può affascinarci o spaventarci, allontanarci o richiamarci. Possiamo creare la nostra autentica felicità o auto distruggerci. E non sta a noi, sta in un rapporto a due.
E’ dura, oh se lo è!
Personalmente tento, cado e tento nuovamente ogni singolo giorno. Mi sforzo. Esamino il mio stesso dolore e la mia gioia, e poi vado oltre, vivo. O almeno, ci provo.
E voi?
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