Magazine Cinema
CAFÉ DEL FLOR (2011)
Regista: Jean-Marc Vallée
Attori: Vanessa Paradis, Kevin Parent, Hélène Florent,
Marin Gerrier, Evelyne Brochu
Paese: Canada, Francia.
Puntare ad emozionare e puntare all'emozione. Potrebbero sembrare due concetti del tutto simili, ma sono in realtà completamente differenti. Spesso il cinema emoziona con una storia, alcune volte invece raccontando le emozioni stesse. Wong Kar-Wai. Lui le afferra con una sbalorditiva e apparente semplicità, le fissa su pellicole e le mostra allo spettatore. Quest'ultimo, nel trovarsele davanti in quella che sembra la loro forma più pura, non può che osservarle e lasciarsi pervadere inerme. Quando questo tipo di cinema riesce, generalmente il risultato è devastante.“Café de Flor” sembra guardare esattamente a tale linguaggio filmico. Lo intreccia con una storia divisa in due piani narrativi distanti nel tempo e nel soggetto, per poi creare continuamente ponti emozionali che li avvicinino fin quasi a non avvertire alcuna differenza. Perché i sentimenti raccontati sono gli stessi, sono sempre gli stessi. L'emozione è astratta, sfugge al tempo e alle definizioni. Nell'inquadrarla, nel ricercarla in maniera insistente, nel farne la sua unica forma di comunicazione Vallée azzera le differenze nelle due storie, o almeno nella percezione delle stesse. Racconta l'amore di una madre per il suo bambino mentre parla di un amore sensuale e passionale come quello del protagonista con la sua compagna, non rendendo mai disomogeneo il ritratto restituito. Sfruttando anzi, al fine di trascinare nell'emotività minando la razionalità, il disorientamento nell'osservare storie così distanti senza avvertire stridii e forzature; sfruttando il disorientamento provocato dalle porte audio-visive che si aprono su altri personaggi o piani narrativi.
La pellicola è più una dimensione che un intreccio, un limbo in cui la ragione fatica a sopravvivere, in cui non sa come muoversi né a cosa rivolgersi. Si scontra con un linguaggio che non può comprendere e nel quale non riesce ad inserirsi. È lo stomaco ad osservare e sentire non la mente. Tutto troppo sfumato perché la logica possa orientarsi, sarebbe come inoltrarsi in “Inland Empire” armati di ragione. Il risultato sarebbe disastroso. Non si sta paragonando il regista canadese a registi enormi quali Lynch e Wong Kar-wai, sia chiaro, ma il lessico è lo stesso, foss'anche solo nelle intenzioni. Non è un caso che anche Vallée si lasci andare ad un uso assai preponderante di tutti quegli strumenti cinematografici in assoluto più filmici e meno realistici. Da una fotografia in continua ricerca di luci e tonalità suggestive, ad una regia seppur elegante non propriamente sobria, passando per un montaggio tanto dinamico e frenetico quanto soffice e fluente. Quest'ultimo in particolare si rivela essenziale nel suo riuscire a seguire, ma anche a dettare, i tempi dei due elementi più importanti nella costruzione della dimensione di cui si scrive, ossia musiche e narrazione non cronologica. Vallée, infatti, non solo disorienta con i due piani narrativi, ma li sfuma continuamente con ricordi, passaggi e sovrapposizioni, che non rende però mai didascalici, preservando così il dominio emotivo; dominio emotivo suggellato da una colonna sonora meravigliosa, capace con Sigur Rós, Nine Inch Nails, Cure e Pink Floyd, come anche con musica elettronica e lounge, di allontanare definitivamente ogni sequenza dalla realtà e restituire un racconto senza tempo né spazio.
A non porre limiti razionali è poi anche il soggetto stesso. Si scriveva delle due storie parallele e distanti nel tempo. Non di qualche anno, però, bensì di decadi. E pur non essendoci di fatto collegamenti concreti tra le stesse, si avverte un legame che non ci si riesce a spiegare, ma che quando al termine viene palesato non fa altro che contribuire a rendere il tutto impalpabile ed etereo. Sarebbe forse stato utile, a tal proposito, far terminare la pellicola qualche minuto prima, senza calcare troppo la mano sulla risoluzione, ma ci pensa ancora una volta la colonna sonora a metterci una pezza, incantando e indebolendo la capacità di critica. Ciò che invece neanche la colonna sonora riesce a smorzare è la sensazione che la pellicola non sempre si mostri in grado di tenere le redini del racconto. Non le sfuggono mai, sia chiaro, ma il coinvolgimento emotivo a volte tende a calare, e in special modo per un cinema simile rischiare di uscire sistematicamente dalla dimensione ricreata è quanto mai deleterio. Una sensazione, questa, che con i due cineasti citati in precedenza non accade mai. Per addirittura tre ore, nel caso di Lynch.
Nonostante qualche limite, tuttavia, quella di Vallè resta un'opera ben interpretata (strepitosa Vanessa Paradis) emozionante e viva, alla quale è necessario lasciarsi andare, se non ci si vuol trovare davanti a qualcosa che potrebbe altrimenti apparire eccessivamente patinato e finto. Cerca l'incanto visivo e sonoro e, almeno nel caso di chi scrive, ci riesce senza dubbio alcuno, dimostrando originalità, inventiva e ricercatezza artistica.
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