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Caffè Nero and Happy Italy

Da Aoirghe

Ricettività verso ogni esperienza, e il fatto che ho ventitré anni: ecco cosa penso, con forza, mentre scaldo il latte a centoquaranta fahrenheit e il cliente di turno picchietta l’indice sul bancone, probabilmente perché vorrebbe che il serving fosse ancora più rapido. Mi ci concentro, e la giornata passa, e trovo anche che cercare di preparare un cappuccino con una foam perfetta può essere piacevole, così come la gente, quando non è insopportabile. London calling: per ora, a fare la barista. Non è male: paga accettabile (seppur il minimo sindacabile), ritmi umani, inglese che si libera della ruggine, incontri interessanti, nuove capacità acquisite – fare circa trecentocinque cose diverse nello stesso momento e parlare più lingue negli stessi venti secondi. Da perfetta non bevitrice di caffè che sono, ho trovato lavoro proprio in una caffetteria, e non in una qualsiasi: si tratta di Caffè Nero, catena diffusissima in Gran Bretagna e acerrima nemica di Starbucks (per fortuna). Si spacciano per una compagnia italiana, anche se il proprietario è americano e la catena è inglese; hanno centinaia di store per tutto il Regno Unito, lavorano anche in Turchia, in Arabia Saudita, e prossimamente negli Stati Uniti e in Cina. Fatturano milioni di sterline: per forza, il loro è the best espresso of this side of Milan. Se sia vero, non so dirlo: non bevendo caffè, non ho testato il prodotto, anche se mi dicono che non è male. E io, da quasi un mese, faccio parte della schiera londinese dei loro baristi. Lavoro decisamente interessante: anziane donnine inglesi cortesi fino alla tenerezza (avresti voglia di portartele a casa, le donnine e il loro tè con latte), stronzi d’ufficio impazienti e scostanti, richieste folli – posso avere un cappuccino very wet, con skimmed latte, caffè decaffeinato, poca schiuma e cioccolato in cima? posso avere un cappuccino take away, ma nella tazzina dell’espresso? posso avere un double espresso ghiacciato? E tu devi accontentare tutto e tutti, perché, regola d’oro messa per iscritto da Caffè Nero, the customer is the king. Sempre. Comunque. Non solo: quando si serve, bisogna seguire tutti i meravigliosi six steps che rendono il servizio di Caffè Nero, secondo Caffè Nero, impeccabile. Si tratta dei famosi smile and greet, serve, sell, stamp and pay, sugar, say goodbye e thank you: e vanno osservati per davvero. In ogni caso, se essere un barista di Caffè Nero è faticoso, esserne un cliente non è meno impegnativo: quando si mette piede in uno store, bisogna prepararsi psicologicamente a venire bombardati di domande, il tutto all’improvviso e nel giro di trenta secondi. Se un cliente non è più che preciso, a ordinare, è un cliente morto: il barista – con gli occhi iniettati di sangue, perché per lui sono tutte cose scontate e ripetute fino alla nausea – attacca con which size? small, regoular or grande? e poi take away or drinking in?, have you go our loyality card?, would you like any chocolate or bluberry muffin as well?. Il cliente, spaesato e intimorito, cerca affannosamente di rispondere nel modo più veloce e coerente possibile. Ma non sempre è così facile: specie se si è un turista. Specie se si è italiani. Nella mia giornata tipo, incontro almeno quindici, venti italiani. Tutti in vacanza. Tutti milanesi, romani o fiorentini. Tutti in gruppi di sei, dieci persone, tutti convinti che Caffè Nero sia esattamente come un bar in Italia. E qui comincia la baraonda. Generalmente non parlano inglese. Gridano, è assodato, gridiamo per davvero. Spessissimo saltano la fila. Arrivati davanti al barista (divertito e anche un po’ spaventato, a meno che non sia italiano pure lui/lei), cercano di ordinare. A volte parlano solo e direttamente in italiano, il che, se il barista è polacco o ungherese, è un dramma. A volte si buttano in un inglese scandito sillaba per sillaba, accompagnato da gesti plateali (e il barista si sente come se stessero parlando a una persona ritardata). Bevono, ovviamente, solo espressi. Infine: sono convinti che, come in Italia, si possa consumare al banco, e quindi cominciano a sorseggiare il loro caffè davanti alla cassa, bloccando la fila e gettando scompiglio nelle sicurezze inglesi. Li adoro. Sono il sale delle mie giornate da Caffè Nero. Loro, e le vecchiette. Quando scoprono che sono italiana anch’io, parte il sollievo di massa – meno male, che culo, allora dai, fammelo buono il caffè!- e ci si racconta qualcosa – da quanto sei qua? come si mangia male! Berlusconi?come si arriva a St Paul?.  Se ne vanno facendo la stessa confusione di quando sono entrati.

Oggi un cliente, inglese, mi ha detto Continuo a vedere così tanti giovani italiani che lavorano qui a Londra, il tuo Paese dev’essere vuoto ormai! Ha usato la parola empty: vuoto. O svuotato? Non è la stessa cosa. Ma la mia amarezza è stata la stessa: Un po’ lo è. E il cappuccino, take away o drinking in?

Ho scaldato il latte. A Londra. Con addosso uno sconforto dolciastro, impotente.

PS: Il nuovo romanzo è finito. Si esce in settembre, ancora con la Giulio Perrone Editore. Titolo “Happy Italy”. In copertina ci sarà un pagliaccio di McDonald’s in procinto di suicidarsi. Se nell’attesa vorrete un cappuccino in una tazza da espresso, mi trovate a Londra, Caffè Nero in Paternoster Square, St Paul.

Caffè Nero and Happy Italy


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