Le origini di Cagliari
di Carlo Tronchetti e Anna Maria Colavitti
L’origine fenicia di Cagliari, già un tempo supposta sulla base dei materiali importati databili tra la fine dell’VIII ed il VI a.C. rinvenuti nel suo entroterra, è adesso da considerarsi accertata. Non sono molte le testimonianze, ma sono tali da consentirci di trasformare la primitiva ipotesi in una buona certezza.
Gli scavi condotti in via Brenta a metà degli anni ’80, hanno restituito alcuni lembi dell’insediamento arcaico assegnabile al periodo fenicio (inizi del VI a.C.), restituendo però anche materiali che si collocano anteriormente di qualche
decennio, risalendo sino addirittura alla fine dell’VIII secolo.
Appare, quindi, sempre più verosimile che Cagliari rientri negli insediamenti costieri fenici della prima ondata di colonizzazione, dei decenni dal 750 al
700 a.C., assieme a Nora, Bithia, Sulci, Portoscuso, Monte Sirai, Tharros, che si appoggiavano alle coste sud-occidentali dell’isola segnando un percorso di scali sulla rotta verso le ricche miniere di metallo della penisola iberica.
I modesti resti rinvenuti durante gli scavi si riferiscono a povere strutture in mattoni di fango poste su zoccolature in pietre, impostate sul terreno vergine; soltanto i frammenti ceramici trovati in connessione con queste murature ci segnalano la loro pertinenza al periodo fenicio, dal momento che la tecnica edilizia non ci può dire moltissimo essendo stata adottata per diversi secoli.
La posizione dell’insediamento, all’interno della laguna di Santa Gilla, è favorevole allo stanziamento umano, e le sue rive sono costellate da presenze preistoriche, alcune delle quali individuate al di sotto dell’attuale area urbana di Cagliari, ed oggi non più visibili. Ci si riferisce, in particolare, alle tombe della cultura prenuragica di Monte Claro, che prende appunto il nome dal colle cagliaritano dove furono ritrovate. Le celle sepolcrali, scavate in profondità nella
roccia, erano del tipo detto “a forno”, accessibile, cioè, dall’alto mediante un pozzo e con forma a cupola. Al loro interno erano deposte le ossa dei defunti fatti precedentemente scarnificare a cielo aperto poggiate su banconi ricavati nello spessore della roccia, con a fianco il corredo vascolare composto delle grandi situle decorate, scodelle, altri vasi e armi in rame. La grande abbondanza dei ritrovamenti di età prenuragica e nuragica nelle zone vicine a Cagliari non ancora urbanizzate ci porta a supporre che le urbanizzazioni di età storica sino
all’epoca moderna abbiano ricoperto irrimediabilmente queste testimonianze,
normalmente meno evidenti delle tracce lasciate dalle civiltà fenicio-punica e romana, e pertanto meno individuabili da parte di chi stava procedendo con sbancamenti e costruzioni.
I materiali mobili che si sono rinvenuti non ci possono aiutare a ricostruire il paesaggio cagliaritano di quelle fasi, ormai perduto. Se poco sappiamo dell’insediamento fenicio, qualcosa di più possiamo dire sul centro di età punica.
I Cartaginesi si affacciano in Sardegna a partire dalla metà del VI a.C. con azioni militari rivolte a conquistare l’isola, obiettivo raggiunto, dopo alterne vicende, prima della fine del secolo. Se le vicende belliche hanno toccato la maggior parte delle città fenicie note, alcune, se non utilizzate come vere e proprie teste di ponte per la penetrazione punica, presentano una situazione la quale le fa ritenere
interessate in minor misura di altre dalle campagne militari. Cagliari pare poter essere una di queste, sulla base delle attestazioni che offre il territorio alle sue spalle nella fase immediatamente successiva alla conquista cartaginese. Cagliari si impone fin dagli inizi del V a.C. come un centro di importanza assolutamente primaria dell’epoca punica.
La città punica
Sfortunatamente conosciamo poco della città punica arcaica, cioè appartenente ai primi anni del VI secolo, mentre sono maggiormente note le sue tombe, inserite nella
grande necropoli monumentale di Tuvixeddu, una delle più imponenti necropoli puniche del Mediterraneo. Le tombe sono collocate sulle pendici occidentali del colle di
Tuvixeddu, sul lato che si affaccia sulla laguna di Santa Gilla. Sulla sua riva, tra le pendici del colle ed il mare, sono stati trovati i resti dell’abitato, nella sua fase di IV e III a.C., con prosecuzione di uso sino alla prima età romana (inizio del II a.C.). Seri indizi ci portano a ritenere che la metropoli di V secolo si trovasse nelle immediate vicinanze. Difatti i livelli di terreno utilizzati per riempire vecchi vani e pareggiare il terreno restituiscono numerosi materiali ceramici di questo secolo, mescolati a quelli più tardi. Tali riporti di terreno non possono essere avvenuti prendendo la terra lontano e trasportandola per un lungo percorso; è quindi verosimile che sia stata prelevata dalle vicinanze per le
esigenze derivate dall’espansione dell’abitato. Un breve saggio di scavo nella via San Simone, poco distante dalla via Brenta cui si riferiscono i ritrovamenti più importanti, ha mostrato, difatti, tracce dell’abitato di pieno V secolo.
Delineando la topografia della città punica, possiamo dire che l’abitato era disteso lungo la sponda orientale della laguna di Santa Gilla, con verosimile espansione dalla riva sino alle pendici del basso rilievo collinare di Tuvixeddu. Il colle era interessato dalla necropoli che scendeva a valle sul lato opposto sino ad invadere parte dell’attuale via Is Maglias. Il tophet, necropoli destinata alla sepoltura dei bambini nati morti o deceduti subito dopo la nascita, cui venivano dedicati stele e sacrifici di animali, era situato lungo la ferrovia, nella regione San Paolo,
poche centinaia di metri a sud di via Brenta, e questa è una indicazione abbastanza certa dell’estensione dell’abitato, dal momento che sappiamo come questa necropoli-santuario fosse costantemente collocata al di fuori del tessuto urbano vero e proprio, così come, d’altra parte, anche le altre necropoli. Le strutture abitative individuate lungo la via Brenta si allineavano secondo un andamento regolare nw-se, seguendo la linea costiera. Le abitazioni avevano muri perimetrali con zoccoli di pietra e l’elevato molto probabilmente in mattoni crudi; alcune murature erano costruite a grandi blocchi ed in una di queste è stato compreso una sorta di silos rettangolare. Per la pavimentazione era adottata la tecnica del cocciopesto ed un pavimento recava ancora l’immagine a mosaico in tesserine bianche del segno di Tanit.
Molte abitazioni erano dotate di una grande cisterna ogivale con uno o più pozzetti di attingimento. Alcune abitazioni, appartenenti all’ultima fase dell’epoca punica,
di trapasso al dominio romano, si mostrano con segni di maggiore articolazione e ricchezza. Resti di case del genere sono stati ritrovati nella via Brenta, in via Po ed alle pendici del colle di Tuvixeddu. Si tratta di strutture dotate di un atrio centrale con colonne, attorno al quale si dispongono le stanze. In alcuni di questi ambienti sono stati rinvenuti ancora mosaici raffiguranti il segno di Tanit ed altri
simboli religiosi punici. La necropoli di Tuvixeddu è stata scavata ed indagata fin dall’800 e mantiene ancora lembi intatti e possibilità di nuove importanti scoperte.
Attiva fin dagli inizi del V a.C., fu utilizzata con diverse tipologie tombali sino al periodo romano repubblicano (II-I a.C.). Il tipo di tomba più diffuso e monumentale è quello definito “a pozzo”, che letteralmente costella, traforandolo, il colle di Tuvixeddu dalla sommità sino all’attuale via Sant’Avendrace.
Le tombe, in questa foggia, sono costituite da camere rettangolari scavate in profondità nel manto di tufo calcareo e rese accessibili da un pozzo sub-quadrato con tacche a rilievo e/o pedarole (incavi nelle pareti per poggiarvi i piedi), profondo alcuni metri. In taluni casi si trovano più camere, disposte l’una di fronte all’altra, ovvero a livelli sfalsati.
Gli ambienti sono piccoli, talora con nicchie nelle pareti, talora con fosse incavate nel fondo. I defunti erano inumati
su lettighe in legno con a fianco il loro corredo, che li avrebbe accompagnati nell’al di là. Vasellame di uso quotidiano e “di lusso” importato da fabbriche esterne all’isola, gioielli, amuleti, unguentari, maschere dipinte su gusci di uova di struzzo, piccole statuette in terracotta o pietra, “rasoi” in bronzo (in realtà piccole accette per sacrifici votivi), sono gli oggetti che ritroviamo in queste
tombe, spesso sconvolti dai cercatori di tesori vecchi e nuovi. Molto poche sono le camere che presentano motivi decorativi. In qualche caso sopra il portello di accesso si trovano segni astrali (disco solare, falce di luna) a bassorilievo ovvero dipinti. All’interno le camere presentano motivi a fasce di colore rosso dipinti sulle pareti; solo due tombe spiccano fra le altre. La “tomba del guerriero”, infatti, mostra una decorazione dipinta complessa. Le pareti, nella loro parte alta, mostrano un fregio di cerchi rossi e azzurri, sostenuti da pilastri con capitelli a volute. Le tre nicchie sono bordate da linee e losanghe rosse e azzurre ed all’interno hanno una triade betilica, cioè tre betili (pietre sacre, dimora della
divinità) affiancati. Su una parete, invece, si colloca la raffigurazione di un guerriero barbato, a petto nudo, con elmo crestato, in atto di vibrare la lancia contro un nemico o un animale non raffigurato. Si è voluto vedere in questo l’immagine di una divinità della guerra e della caccia.
Un’altra tomba è definita la “tomba dell’Ureo” dall’immagine del serpente sacro della religione egizia, raffigurato alato e sormontato dal globo solare tra due corna. Il serpente, posto sulla parete di fronte all’ingresso della camera, è inquadrato ai lati da due fiori di loto e da due maschere gorgoniche, rappresentazioni demoniche destinate ad allontanare gli spiriti maligni. Lungo le pareti laterali corre un altro fregio, inquadrato in alto ed in basso da fasce in ocra rossa, dove vediamo palmette e fiori di loto alternati. La cronologia di queste due tombe dipinte si pone tra lo scorcio del IV ed i primi anni del III a.C.
Nella sua fase più tarda la necropoli di Tuvixeddu fu interessata anche dalla deposizione di tombe a enkythrismos (inumato entro anfora) e di incinerazioni che spesso utilizzavano il pozzo di accesso di precedenti tombe a camera.
Il colle di Bonaria ha restituito testimonianze di età punica, e cioè alcune tombe a camera, utilizzate da poco dopo la metà del III alla metà circa del II a.C. Considerata la distanza dal nucleo di abitato individuato in via Brenta e dalla necropoli di Tuvixeddu, siamo certi che queste tombe siano da riferirsi ad un insediamento distinto dalla Cagliari vera e propria, costituente un nucleo abitato a sé stante.
ANFITEATRO
L’anfiteatro romano è uno dei pochi edifici superstiti della Cagliari antica.
È situato nella parte nord occidentale della città, accessibile sia dalla passeggiata di Buon Cammino che dal viale Frà Ignazio, lungo un percorso che partendo dal corso Vittorio Emanuele, sale per via Tigellio (area abitazioni romane) e giunge sino all’Orto botanico che costitusce la propaggine inferiore del grandioso monumento.
Esso è situato sul pendio del Colle di Buoncammino di cui sfrutta la morfologia naturale risultando in parte scavato nella roccia calcarea, in parte costruito con due settori interi della cavea all’estremità dell’asse maggiore, di cui oggi non è visibile alcuna struttura poiché è andata distrutta e depauperata nel corso del tempo. Diversi sono gli elementi caratteristici di questo edificio: l’arena di
dimensioni piuttosto modeste con asse maggiore di m 46,20 circa ed asse minore di m 31, è ricavata nella roccia ad esclusione di una piccola porzione a sud ovest. Dal piano dell’arena si intravedono tre ambienti sotterranei, anch’essi scavati nella roccia, di cui uno centrale allungato e due laterali di forma rettangolare e dimensioni minori rispetto al primo. Il podio separa l’arena dalla cavea ed è parzialmente scavato nel calcare, ma anche costruito in blocchi squadrati.
In corrispondenza dell’estremità nord-est dell’asse maggiore si interrompe per alloggiare un ambiente con nicchie di incerta destinazione, mentre a sud-ovest non insegue più il suo andamento curvilineo, per il crollo di un intero settore in questo punto. Nel podio vi sono otto aperture simmetriche che collegano l’arena con l’ambulacro inferiore: quest’ultimo, voltato, si percorre lungo l’intero perimetro
dell’arena ad esclusione della porzione crollata di sud-ovest. Si compone di due parti di cui una, interna, scavata nel calcare, l’altra, esterna, realizzata in pietra. Ampi nicchioni rettangolari si aprono internamente all’ambulacro inferiore. Da questo si può accedere a due vani di servizio collocati alle estremità sud-est e nord-ovest dell’asse minore, ai corridoi ipogeici ed ai vomitori del primo meniano. A sudest dell’asse minore, un’apertura conduce ad un corridoio dove sono collocate le scale dirette agli ambienti ipogeici. Da questo corridoio si accede ad un altro, più ampio del precedente, che introduce ad un vano di servizio di pianta trapezoidale, voltato a botte, e ad una scala che immette al vomitorio del primo meniano. Il pavimento di questo vano ospita una vasca quadrangolare ricavata nella roccia. A nord-ovest dell’asse minore sono ricavati alcuni ambienti con destinazione d’uso simile a quelli suddetti, ma planimetricamente differenti. Nella parete interna dell’ambulacro inferiore si apre un vestibolo quadrangolare, alla destra del quale sono collocate le scale che conducono agli ipogei.
Nella parete di fondo del vestibolo sono ricavate due porte conducenti rispettivamente: una ad un corridoio ed alle scale di accesso del primo meniano, l’altra ad un vano di servizio. Lungo la parete destra del vano di servizio è scavato un bancone o sedile di incerta destinazione d’uso, mentre una parte collega il vano al corridoio voltato. Dall’ambulacro inferiore si sale ai vomitori della prima precinzione. All’interno di quest’ambulacro si apre un corridoio perpendicolare a fondo del quale è scavato un nicchione simile a quelli dell’ambulacro. Altri corridoi si aprono da quest’ambulacro: il loro significato non è chiaro poiché la lettura di essi risulta compromessa da interventi successivi di difficile interpretazione funzionale e cronologica.
IL MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE
Il Museo è situato nella Cittadella dei Musei, piazza Arsenale, nel punto più alto di Cagliari. È stato trasferito nel 1993 dall’antica sede dell’adiacente piazza Indipendenza al nuovo edificio, costruito sopra le fortificazioni dell’arsenale militare spagnolo, inglobandone alcune parti. Si compone di quattro piani di esposizione, di cui, attualmente, solo due aperti al pubblico.
Il piano terra propone una esposizione cronologia della storia della Sardegna, dal Neolitico (6000 a.C.) sino ad epoca bizantina (VIII d.C.), attraverso i materiali delle vecchie collezioni museali. Tra questi spiccano la serie delle statuette di dee madri delle culture preistoriche neolitiche di Bonu Ighinu (4000-3500 a.C.) ed Ozieri (3500-2700 a.C.), con il passaggio dalle forme volumetriche delle prime agli esemplari a placca ed a trafore delle seconde. Di eccezionale importanza ed interesse sono i famosissimi bronzetti nuragici. Rinvenuti in massima parte nell’800 nei due grandi santuari di Santa Vittoria di Serri e di Teti Abini, presentano una
varietà di raffigurazioni che si articolano principalmente attorno ai guerrieri armati di arco o spada ed alle figure di offerenti. Non mancano altre immagini, come quelle dei capitribù, dotati di ampio manto e bastone oppure di divinità femminili sedute che accolgono il defunto tra le braccia. Abbiamo anche raffigurazioni di animali, fra cui prevalgono il toro ed il cervo. Una vetrina è dedicata alle navicelle bronzee nuragiche, rappresentazioni di imbarcazioni ornate da teste di cervo o toro, in diverse forme. Queste barchette sono state trovate anche al di fuori della Sardegna, in tombe etrusche e santuari greci del Lazio e della
Calabria. La datazione dei bronzetti si colloca dal IX sino al VI a.C., mentre le navicelle sembrano arrestarsi al VII secolo. Da notare anche i grandi frammenti di statue di dimensioni superiori al vero rinvenute a Monte Prama, nei pressi di Cabras (OR), databili al VII a.C., che riproducono in pietra alcune raffigurazioni
note nei bronzetti. Tra i materiali punici sono da segnalare gli ornamenti personali:
oreficerie e collane in pasta vitrea (collana di Olbia). Singolari sono le raffigurazioni del dio Bes, rappresentato come una figura grottesca, bassa, panciuta, ma benefica divinità della salute. L’epoca romana presenta le consuete classi di materiali che caratterizzano questa civiltà ovunque essa si sia manifestata: ceramica a vernice nera, a pareti sottili, sigillata italica, gallica, africana, vetri, lucerne e così via. Di interesse maggiore sono i lingotti in piombo,
alcuni dei quali, di età imperiale, presentano il nome dell’imperatore, a segnalare la sua proprietà di queste produzioni. Infine il primo piano si chiude con una breve presentazione dei materiali di epoca vandala e bizantina, prevalentemente oreficerie.
Due pannelli illustrano la monetazione punica e romana attestata nell’isola, mentre lo spazio centrale del piano è dedicato ad una ricostruzione ideale dei tophet di Tharros, con elementi tutti originali. Il secondo piano è dedicato all’esposizione topografica delle scoperte archeologiche nel territorio del Sarrabus-Gerrei (Sardegna sudorientale), a Cagliari e nel suo Campidano. Da segnalare sono i corredi romani di Villasalto, la selezione dei reperti rinvenuti nei complessi nuragici di Barumini e Villanovaforru, i curiosi ritrovamenti di Dolianova, dove rozze placchette in terracotta con la stilizzazione di volti umani sono testimonianza di un culto ad una divinità salutare. Interessante è la ricostruzione di un tetto di epoca romana, compiuta utilizzando tegole deocrate rinvenute in un relitto presso
Villasimius.
La parte principale è dedicata alla città di Cagliari, dai primi ritrovamenti di età preistorica sino all’epoca cristiana, con esposizione di
ceramiche, statuaria, iscrizioni, mosaici. Il terzo piano è dedicato al Campidano centrale ed al Sulcis-Iglesiente. Nella prima parte spicca senza dubbio l’eccezionale complesso rinvenuto presso la chiesa di Santa Anastasia di Sardara, con
pani di piombo, un modello di nuraghe in pietra e tre calderoni bronzei di fattura verosimilmente etrusca. Lo straordinario gruppo di bronzetti di Uta, con il capotribù, gli arcieri ed i lottatori occupa un posto significativo all’interno dell’esposizione. Rilevanti sono pure i materiali da Nora, Su Benatzu, Bithia, Monte
Sirai e Sant’Antioco. Il quarto piano offre al pubblico i risultati delle ricerche nel territorio oristanese. Di notevole interesse è la statuaria nuragica di Monte Prama (Cabras) con frammenti di statue e di modelli di nuraghe. Parimenti interessante è la presentazione della ricca stratigrafia di Cuccuru S’Arriu (Cabras) che corre dal Neolitico, con statuette di dee madri, sino al periodo imperiale romano. Un nutrito gruppo di vetrine è dedicato poi al grande centro di Tharros, ricco di testimonianze dall’epoca fenicia sino al tardo romano, in cui spiccano le oreficerie puniche. Uno spazio apposito è destinato all’esposizione del relitto di Mal di Ventre, che portava un carico di lingotti di piombo iberico.
Fonte: Guida Archeologica di Cagliari,
Carlo Delfino Editore
Le immagini dei bronzetti nuragici sono realizzate al museo di Cagliari