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Il modello americano, ormai da tempo, è l’unità di misura che l’intera cultura occidentale ha adottato come convenzione per riferirsi a qualsiasi aspetto sociale e/o individuale che la tiene ancora miracolosamente in vita. Accade dunque che in un film come “Cake” Claire, una ricca bianca - così
viene definita da un farmacista di Tijuana -, provando a ri/sincoronizzarsi con ciò che la circonda in seguito ad un incidente ed all’affiorare dei vari fantasmi che emergeranno col proseguire della narrazione - si veda la scena in cui la protagonista, stesa sui binari del treno, nomina le patatine del Mc Donald’s nel rievocare il figlio morto -, sia l’efficace rappresentazione del nonnulla celato dalla luccicante illusione made in U.S.A.
Elemento interessante e qui ben decodificato, in primo luogo, è quello dell’utilizzo di uno sguardo femminile - con meno fortuna, tra titoli recenti, lo stesso tentativo s’era fatto con “Wilde” e “Still Alice” -, che ben sopperisce alla mancanza della soggettiva solitamente maschilista del mezzo cinematografico e che fornisce a chi guarda nuovi punti di vista. È altresì fondamentale il disagio che la protagonista vive parallelamente al fruitore, con l’handicap fisico di Claire che si evolve o involve parallelamente al proprio stato mentale - sotto questo aspetto sono eloquenti le difficoltà vissute nel rapporto sessuale o nel viaggiare in macchina -.
“Cake” - grazie anche ad una straordinaria quanto inaspettata interpretazione da parte di Jennifer Aniston, il cui volto sempre sull’orlo della disperazione è continuamente cercato e preso spesso in primo piano dalla mdp -, nonostante non sia un film esente da difetti e l’intravisto ottimismo finale, è un’opera in grado di restituire impazientemente le contraddizioni della propria epoca e dei propri luoghi. Antonio Romagnoli
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