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Calabria, una malattia dell'anima

Creato il 27 agosto 2011 da Bruno Corino @CorinoBruno

Piano di Novacco
Sono tre anni che non vado in Calabria, per la precisione dovrei scrivere che non metto piede nel mio paese, poiché la Calabria in sé è più un’astrazione dello spirito, un luogo geografico divenuto nel corso dei secoli un sorta di luoghi comuni. Sono trascorsi più di tre anni eppure non sento nessuna nostalgia, nessuna mancanza, finora. In passato, mi capitava di andarci almeno tre o quattro volte all’anno, e ogniqualvolta mi avvicinavo ai luoghi a me conosciuti (Laino, Mormanno, Campotenese, Morano, ecc.) provavo una grande emozione. Appena attraversata la catena del Pollino, il mio piacere più forte era individuare la vetta di Caramolo. Era per me come il campanile del contadino di Marcellinara, raccontato da Ernesto De Martino, ossia il punto di riferimento che mi faceva dire sono tornato nel mio ganz heimlich, mi sento appaesato. Nello stesso momento in cui scorgevo la Vetta di Caramolo sentivo d’essere entrato nel mio “spazio domestico”. Ora tutto cominciava ad essermi noto e conosciuto. Ogni punto che attraversavo poteva suggerire alla mia memoria qualcosa. Quando poi mi affacciavo sulla Piana di Sibari a volte sentivo una lacrima sottile velarmi gli occhi. Mi sembrava di entrare in contatto con i miei antenati, gli antichi sibariti che amavano costruire le loro ricche ville sulle nostre colline, o con gli antichi abitanti di quei luoghi, i Bruzii. Io ho provato sempre la sensazione di appartenere a quelle terre, ovunque un giorno mi fossi trovato a vivere, in qualunque posto avessi deciso di piantare le tende, sapevo che il cuore e la mente sarebbero rimasti affissi a quei luoghi. Tant’è che una volta mi sono chiesto se la Calabria fosse una malattia dell’anima, una malattia di cui non si guarisce mai, una malattia degenerativa, potrei dire, che peggiora con il passare degli anni. Eppure, non avverto nessuna voglia di tornarci, magari soltanto per qualche giorno. È uno strano sentimento quel che provo. Non avverto più il bisogno di dimorare in quello spazio domestico. È come se quel ganz heimlich ormai abitasse nella mia mente o nei miei pensieri, come se fosse continuamente trasfigurato nel suo elemento stilistico, o nella sua sostanza poetica. Forse è l’unico e ultimo modo per tenere in piedi una metafisica dell’essere, nel quale il ciclo della vita torna sempre al suo punto di partenza, o d’inizio, per incontrare poi lì la sua fine e riprendere così il suo cammino, eterno.


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