Anna Lombroso per il Simplicissimus
Non si sa bene quanto siano: secondo la prefettura tra 800 e mille, secondo le organizzazioni umanitarie 3.450, secondo la tv svizzera 5000, ammassati in un sito che è addirittura più precario, instabile, esposto alle intemperie, insicuro di uno slum, di una favela, di una bidonville.
Nelle nuove geografie della guerra di tutti contro tutti, il posto dove si sono radicati quelli che nessuno vuole, si chiama Giungla, e le loro tende sorgono nella terra dimentica dei Lumi, della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, della Comune.
Da qualche giorno, secondo le regole di un pogrom non solo amministrativo, sono iniziate le anodine deportazioni, motivate da ragioni “igieniche” e di sicurezza e favorite dalla necessità di rassicurare la cittadinanza, che ha ingoiato senza batter ciglio il perenne stato d’assedio di Hollande, pensato e realizzato per mettere al bando libertà e critica, e che accoglie di buon grado la tesi del nemico che viene da fuori, per rimuovere insieme ai labili sensi di colpa post coloniali, alle responsabilità per recenti e contemporanee imprese belliche, anche la consapevolezza dell’incapacità di governare l’arrivo e la presenza di un’immigrazione, fino a qualche tempo fa indispensabile all’economia nazionale, ora molesta, complicata, portatrice di disordine e malessere, covato e ormai esplosivo nei luoghi della marginalità. Mentre le forze dell’ordine li conferiscono altrove, in non meglio identificati centri di “accoglienza” o in container per spedizioni, adibiti a uffici da una burocrazia inflessibile, una specie di Fulgida, una impresa di grandi pulizie anche etniche, passa con i bulldozer e rade al suolo l’accampamento, proprio come vuol fare qui il manovratore di ruspe, o si propongono di fare i prefetti di Roma – due come i presidenti della Repubblica e i papi – con appena un po’ di garbo o di ipocrisia in più di quel che fanno quei Paesi dell’Europa orientale in cui affiorano con oscena libertà gli umori ferini del nazionalismo, dell’antisemitismo e dell’autoritarismo i cui effetti fatali sono scritti nei libri e nei testi di scuola, e perciò, si direbbe, dimenticati.
Così come è dimenticata la lezione della storia che smentisce la rivendicazione della vocazione civile e democratica, solidale e guardiana dei diritti di un’Europa, teatro per tre secoli di cruenti conflitti, cimitero di quasi cento milioni di morti nelle due guerre mondiali, terreno di coltura di mostruose soluzioni finali. Per questo non è solo colpa delle recessione, della perdita di beni, valori e di identità di ceti che un tempo rappresentavano un’élite sociale e culturale, del ripiegamento su pulsioni campanilistiche, dell’attestarsi su logiche miserabili e sulla ricerca di profitti elettorali immediati se non si è mai dato forma a una strategia unitaria per il governo di un fenomeno non certo inatteso e sorprendente, visto che è stato ed è largamente prodotto dalla mancanza di una politica estera comune indipendente dagli Usa, dalle azioni neo-imperiali di Cameron o di Hollande, dal sostegno intermittente quanto l’identificazione sommaria di nemici che ha legittimato missioni belliche e missioni umanitarie altrettanto sanguinose.
Non può che esserci un istinto, un’indole, un codice genetico che spinge alla guerra come soluzione, all’alimentazione di fuochi e conflitti interni, forse ispirati dalla credenza che la storia non nega, della forza derivante della sopraffazione dei deboli e della loro divisione, se si consegnano 3 miliardi a Erdogan perché tenga lontano dall’Europa i profughi, concedendogli mano libera contro i curdi e in Siria. Se invece il piano per gli aiuti umanitari complessivi ai migranti conterà sulla cifra totale di 700 milioni. Se si è scelto di fronteggiare con altra guerra, quelle che si svolgono in quei territori, invece di distribuire equamente gli oneri dell’accoglienza. Se muri, fili spinati, recinti, lager, rifiuto, respingimento, repressione sembrano inevitabili prezzi da pagare a un’emergenza e misura difensiva contro un nemico del quale politica e media ogni giorno sottolineano la predisposizione ispirata alla violenza, alla barbarie, all’irrazionalità, perché a differenza di altre religioni l’Islam sarebbe refrattario alla ragione e inadatto a una società democratica, perché contrariamente a tutti gli altri credenti, i mussulmani sarebbero un’entità unica e omogenea, che condivide la stessa visione del mondo, della società e del rapporto con gli altri , tanto da imporre inevitabilmente l’idea dell’estirpazione di un potenziale contagio, incompatibile con i valori della civiltà occidentale: dalla laicità ai diritti delle donne, dalla libertà di espressione a quella religiosa.
E ogni guerra ne genera altre, come in un feroce gioco di scatole cinesi, degli uni contro gli altri e anche contro se stessi, attraverso scelte inesorabilmente suicide, perché facevano parte del nostro mondo che non sa essere felice i ragazzi che hanno ammazzato a Parigi e che si sono ammazzati, venuti su in quei luoghi eccentrici rispetto allo sfavillio artificiale di un modello di vita che viene proposto come autentico mentre irradia solo la luce sinistra di un vuoto riempito di merci, in città costruite sulla sopraffazione, lo sfruttamento e l’ingiustizia. E vi appartengono con collera e frustrazione quelle seconde e terze generazioni che patiscono una marginalità magari non economica, ma culturale e sociale, vi apparterranno con rabbia maggiore e ancora più dirompente quelli arrivati ora, accampati sulle panchine dei nostri giardinetti a far nulla, malnutriti, guardati con sospetto, concentrati in campi, accampati in nuove giungle, che sui arrampicano come scimmie disperate su per muri col filo spinato per guardare se di là c’è vita e non solo la nuda sopravvivenza. E sbaglieremmo a dire che il terrorismo è frutto dell’Islam, perché ha collaborato in misura superiore la nostra civiltà escludente e iniqua, ne abbiamo moltiplicato e riprodotto le disuguaglianze e le sopraffazioni ogni volta che ci siamo sentiti legittimati ad agire con la violenza e lo sfruttamento, per garantire il nostro irrinunciabile stile di vita. E così colpiamo e siamo colpiti, provocando il lutto e portandolo per noi stessi.