Chi pensa che pallone e politica si siano incontrati solo di recente sbaglia di grosso. Fascismo e nazismo intuirono per primi le potenzialità propagandistiche dello sport, tanto che l’Italia concentra in quegli anni due dei quattro titoli mondiali vinti e l’unico titolo olimpico. ”Il calcio è una tavoletta di cera su cui la società si prodiga a incidere se stessa, nel bene e nel male…”. Uno strumento ambiguo, imprevedibile, difficile da controllare, in primo luogo per la portata della sua popolarità. Al suo fascino non si resiste, si sa. Anche chi non lo apprezza o non ha dimestichezza con le regole ne coglie subito le forti valenze simboliche e le vaste implicazioni sociali. I dittatori che hanno tristemente attraversato la storia del Novecento erano attentissimi alla funzione dello sport: ottimo collante sociale, spiccata propensione a pescare nelle sacche del nazionalismo dei tifosi, cura del corpo a discapito del pensiero.
Hitler, Mussolini e Stalin non apprezzavano più di tanto il calcio. Probabilmente erano nati troppo presto per capirlo. La squadra più amata di Amsterdam, l’Ajax, incrocia la sua storia in maniera bizzarra e drammatica con quella della Shoah, come dimostra l’inchiesta un po’ dispersiva e a tratti faziosa del giornalista Simon Kuper. Nato in Uganda da una famiglia di ebrei sudafricani e cresciuto nei Paesi Bassi, si è laureato in storia ad Oxford e attualmente vive a Parigi. E’ cresciuto in Olanda e scrive su “Financial Times” e “The Observer“.
Grande appassionato di calcio è autore anche di “Football against enemy” (2003 ). Nella sua fatica “Ajax, la squadra del ghetto” (256 pagine, € 15 50, tradotto in italiano da Michela Campanari per ISBN edizioni nel 2005) lo scrittore parte da una semplice domanda: come si concilia l’opinione corrente secondo cui durante il secondo conflitto mondiale gli olandesi hanno difeso “a spada tratta” gli ebrei presenti sul territorio nazionale, con la crudezza delle cifre che ne attestano invece lo sterminio pressoché totale? Ne furono uccisi 104.000. Mentre scriveva questo libro ad Amsterdam, l’autore aveva l’impressione di vivere in una città fantasma. La maggior parte degli edifici del quartiere sono ancora lì e alcuni dei vecchi nomi ebraici dei negozi (come “Apothek De Castro” ) sono ancora visibili sulle facciate. La sinagoga portoghese da cui il filosofo Spinoza fu espulso dai suoi correligionari ortodossi è ancora lì. I vicoli squallidi intorno alla sinagoga hanno lasciato il posto a strade a due corsie, che in questa città di biciclette sembrano autostrade! Lì vicino, sulle macerie delle case degli ebrei è sorto il Teatro Municipale dell’Opera. Ma la cosa principale cambiata nel quartiere ebraico è che non ci sono più ebrei. Tre quarti di loro furono uccisi da Hitler. Nessun altra comunità europea ha subito una simile distruzione.
E’ forte il legame tra l’Ajax e la comunità ebraica
Kuper è andato a ficcanasare negli archivi delle squadre di calcio, cominciando dall’Ajax, che prima del conflitto mondiale era sostenuto e finanziato generosamente dalla comunità ebraica locale e che annoverava più di un ebreo fra i suoi giocatori, passando per compagini meno note come lo Sparta o l’Unitas. Se squadre come quest’ultima (le indimenticabili pagine dedicate alla dignità quasi suicida con cui il consiglio d’amministrazione della società sportiva si oppose ai diktat nazisti sono commoventi) non furono assistite dalla sorte e scomparvero nel nulla, altre, come l’Ajax, ebbero il proprio destino legato a doppio filo a quello ebraico. Jaap Van Praag, presidente nel periodo di Cruijff, riuscì a sfuggire ai rallestramenti, nascondendosi nel retrobottega di un negozio di fotografia per due anni. Sfuggì a essi trascorrendo le ore d’apertura seduto immobile su una sedia, difatti il titolare dell’esercizio non era al corrente della sua presenza al piano superiore. Furono proprio lui (diventato col tempo ricchissimo) e i collaborazionisti soprannominati “Fratelli Bunker” a creare il mito dell’Ajax, rafforzato poi da massicci investimenti di altri ebrei. Ma i primi ad investire nell’Ajax durante il dopoguerra furono i fratelli Freek e Win Van Der Meijden, costruttori edili. Durante l’occupazione tedesca lavorarono per l’invasore e a causa di ciò il club non consentì loro di diventare soci. I tifosi della squadra utilizzano ampiamente la Stella di David e la bandiera israeliana.
Allo stesso modo sono chiamati “gli ebrei” dai tifosi avversari. Tutto ciò è dovuto al fatto che il club è originario della zona dell’antico ghetto ebraico di Amsterdam e la sua storia è stata costellata di dirigenti d’origine ebraica. L’Ajax era “la squadra del ghetto”. Grazie all’indagine di Kuper la storia del calcio olandese ed europeo diventano lo “schermo” su cui scorrono decine di storie di collaborazionismo e di deportazione. “Il calcio è stato il luogo in cui Olocausto e vita quotidiana si sono incontrati”.
Durante l’occupazione nazista la zona grigia di complicità e collaborazione fu molto più estesa di quanto non si pensi. Le già citate Stelle di Davide che sventolano allo stadio sono la testimonianza involontaria, ma significativa, di una realtà storica che fino a non molto tempo fa è stata negata, messa da parte o peggio mascherata dietro la figura di Anna Frank e il mito della tolleranza olandese, recentemente infranto da Pym Fortuyn. Negli anni 30 l’Ajax era la squadra più amata dagli ebrei di Amsterdam. Passava dal ghetto il dramma che portava venditori di stoffe e mercanti di diamanti insieme ai figli e nipoti, a tifare per la squadra della buona borghesia cittadina. L’ala destra Eddie Hamel, un ebreo newyorkese bravo e bello, che oggi ricorderebbe David Beckham, era un motivo ulteriore per passare la domenica allo stadio. Nel 1940 l’occupazione nazista mise fine anche a questo. Hamel, che all’epoca aveva già lasciato la squadra, morì ad Auschwitz e con lui tanti dei suoi tifosi. Fu deportato e ucciso anche l’ebreo Han Hollander, primo radiocronista calcistico olandese.
Può sembrare bizzarro rileggere una tragedia così devastante attraverso il calcio. Certo è che il collaborazionismo di molti olandesi non fu fermato dall’appartenenza a comuni colori: nomi di altri giocatori dell’Ajax dell’epoca compaiono fra quelli degli iscritti al partito nazista, tra i delatori o i semplici contabili delle ricchezze requisite agli ebrei. E proprio nell’archivio di un’altra squadra di calcio, lo Sparta, Kuper scopre il volto burocratico, efficiente dell’Olocausto: sono le lettere deferenti, ma spietate, con le quali si rende noto ai soci ebrei che in base a nuove disposizioni il loro abbonamento non è più valido. Tra i documenti spunta fuori anche un grande cartello con la scritta “Proibito agli ebrei”, da inchiodare sull’entrata dello stadio.
Anche in Italia due allenatori furono costretti a lasciare il loro incarico a causa delle leggi razziali. Arpad Weisz, l’ebreo ungherese inventore del Bologna “che tremare il mondo fa”, fu licenziato dopo l’inizio del campionato 1938/39 e morì durante la guerra. Egri Erbstein, anch’egli ebreo ungherese, direttore tecnico del Grande Torino e profeta del Metodo, fuggì all’estero ma non riuscì a evitare il campo di concentramento. Sopravvisse e tornò al suo posto dopo la guerra, per morire paradossalmente nella tragedia di Superga.
Eddy Hamel
Il ruolo della guerra nelle questioni delle radici ebraiche dell’Ajax è decisivo: l’ebreo Maup Caransa, salvato durante la guerra dal suo matrimonio con una donna cattolica, all’epoca era un eccentrico petroliere miliardario. Questi avvenimenti spiegano esaurientemente i motivi del silenzio ufficiale dell’Ajax sulle Stelle di David in mano ai suoi tifosi: il colpo di spugna tentato nel dopoguerra dagli olandesi nei confronti del loro passato sotto l’occupazione nazista è palese. “Una squadra di calcio è come una famiglia” scrive Kuper e questo è oltremodo vero per coloro che non ne hanno una propria. Non erano rimaste molte famiglie ebraiche dopo l’Olocausto. Una voce ancora popolare in Israele (dove l’Ajax è amatissimo ) definisce la leggendaria squadra olandese “la formazione ebraica”, ma tale nomea, pur diffondendosi in fretta è rimasta sempre più lontana dalle sue radici storiche, a testimoniare il senso di comunità perduta, l’eclettismo e il genio incastonato per sempre nella psicologia dell’Ajax in campo.
Lo scrittore non fa sconti a nessuno, in particolare ai suoi connazionali olandesi. Gli occupanti nazisti imposero l’allontanamento degli ebrei dalle società calcistiche, le quali, ubbidienti, si adeguarono. L’Ajax, come qualsiasi altra istituzione olandese si contraddistinse per ambiguità e codardia, continuando a inseguire un pallone, qualsiasi cosa accadesse. L’ambiguità dell’Ajax fu oltremodo sottile: i soci ebrei furono espulsi nel 1941, ma poi il Club fece molto per aiutarli quando si trovarono in difficoltà, aiutati dal fatto di appartenere ad una società calcistica a maggioranza non ebraica. Curioso l’equivoco sul fuoriclasse mondiale Johan Cruijff: essendo figlio di un uomo d’affari con qualche parentela ebraica acquisita dalla moglie, per tutti gli ebrei di Amsterdam è ebreo, anche se non è vero. Le forti identificazioni si costruiscono anche così.
Kuper – nato come già detto da genitori ebrei sudafricani vissuti fra Cambridge, il Deserto del Kalahari, la California meridionale, l’Uganda, la Giamaica, la Svezia e l’ “Uptown” londinese – racconta l’Olocausto (Shoah – distruzione nel termine ebraico) partendo dagli anni ’30, che definisce come “fonte di ogni male, ma affascinanti da un punto di vista calcistico, perché in quel periodo il gioco si trasformò in politica”. Sfatati tanti luoghi comuni, partendo dall’Ajax, che oggi si vergogna della Stella di Davide, allo Sparta, la squadra col maggior numero di soci ebrei, prontamente espulsi. Ma anche falsi miti, parlando del tradimento riservato alla Frank, catturata da quattro poliziotti su soffiata di un olandese.
Tempo fa uno dei soci onorari dell’Ajax chiese ai tifosi di non esporre più bandiere israeliane e stelle di Davide insieme agli striscioni. “L’ostentazione di essere un club ebraico è pericolosa, dolorosa e ci riporta all’Olocausto”.
Secondo Kuper stesso, nell’immaginario popolare Amsterdam è una città abitata da un gran numero di ebrei. E’ così sin dai tempi di Rembrandt, che visse nel ghetto e lo dipinse. Quest’etichetta iniziò a essere usata dai primi Hooligans, in particolare quelli di Rotterdam, notoriamente antisemiti. Nel solo quartiere ebraico di Amsterdam, il più povero della città, vivevano 80.000 persone.. Una specie di “Calcutta fredda”. C’erano cinque squadre ebraiche, ma tutte le domeniche, passate le ore 14 chiudevano i loro carretti carichi di stracci e salivano sul tram che portava allo stadio. Quando nel 1938 l’Ajax ospitò gli austriaci della Admira Vienna e i suoi giocatori rivolsero il saluto nazista lo stadio fischiò e molti se ne andarono indignati. Per lungo tempo l’Olanda si è ricreata un passato resistenziale che non ha mai avuto luogo, fatta eccezione per lo sciopero generale del 1941, represso con violenza.
E infatti già nel 1961 durante il processo di Gerusalemme, Adolf Eichmann ricordava che “i treni provenienti dall’Olanda erano una meraviglia…”. Come ha scritto Hannah Arendt ne la”Banalità del male“, l’Olocausto nei Paesi Bassi, a differenza di quello che accadde altrove, come per esempio in Belgio, in Danimarca o anche nella stessa Norvegia, fu una catastrofe mai uguagliata in nessun altro Paese dell’ Europa Occidentale. L’Olanda non è però l’unico Paese toccato dalla meticolosa indagine. In Germania e in Inghilterra si continuò a praticare il calcio come nulla fosse. Nei campi sportivi come nelle caserme, nelle fabbriche o nei territori occupati e le autorità incoraggiavano tutto questo perché il calcio era il gioco del popolo ed il popolo aveva bisogno di distrarsi dalla guerra. Nelle preziose, ma per certi versi inquietanti raccolte iconografiche, merita una significativa citazione la svastica nazista sventolante a mezz’asta per la morte della Principessa Vittoria, al White Hart Lane, stadio del Tottenham Hotspur, il 4 dicembre del 1935 e la cosiddetta “Fotografia infame“ (che potete vedere in alto): l’Inghilterra che fa il saluto nazista prima dell’amichevole contro la Germania, a Berlino il 15/5/1938.
Uno striscione infame
Quando l’Ajax entra in campo i tifosi di Feyenoord e Ado Den Haag, acerrimi rivali dei biancorossi, rifanno il verso del gas nei forni crematori.. Nel 1999 alla festa dello scudetto, il terzino del Feyenoord Ulrich Van Gobbel urlò otto volte al microfono “chi non salta un ebreo è” e al coro partecipò il capitano della squadra, Van Gastel. In un recente campionato olandese un arbitro ebreo sospese la partita per i cori antisemiti dei tifosi. Cose olandesi? Non solo. Il 19/3/2003 allo stadio Olimpico di Roma, la sera del match Roma-Ajax, un gruppo di tifosi espose uno striscione su cui era scritto “And now… Go to have a shower” (“e ora andate a farvi una doccia”).
I tifosi biancorossi dell’Ajax condividono la scelta dei simboli ebraici con quelli inglesi del Totteham Hotspur, che si definiscono “Yid”, “Yiddish” ma mentre gli inglesi possono rivendicare un legame con la comunità ebraica abitante nella zona della loro squadra, a Nord di Londra, le storie ufficiali dell’Ajax non fanno alcun cenno nella centenaria storia del Club. Non che queste due squadre di calcio siano mai state unite, nemmeno gemellate, ma nell’immaginario calcistico europeo rappresentano i clubs ebraici per antonomasia. Addirittura, presso l’impianto sportivo inglese vendono i “Bagel”: pani coi buchi tipici della cucina ebraica. La storia del Tottenham Hotspur, i dirigenti, l’elemento geografico, la percezione degli avversari hanno creato un’immagine e una prossimità al mondo ebraico che oggi nessuno si sente di smantellare o sbiadire. Tanto meno il presidente Daniel Levy ed il suo vice David Buchler, anch’essi ebrei. I tifosi biancoblù, da quasi un trentennio, si raccolgono nella “Yid Army”, l’ “Esercito Yid” e danno dello “Yido” a Germain Defoe, il giocatore simbolo, che è di colore e non ha niente d’ebraico. Mark Perryman, tifoso del Tottenham Hotspur è Presidente dell’Associazione che riunisce i tifosi moderati della nazionale inglese, racconta d’aver avviato fra i supporters un dibattito costruttivo sul razzismo. Nessuno ha parlato di antisemitismo o abusi subiti per l’immagine trasmessa dal Tottenham Hotspur.
Al ” White Hart Lane” può capitare di vedere vessilli con la Stella di Davide e si cantano cori di riferimento. A Londra, rispetto ad Amsterdam, non si sente il bisogno di prendere le distanze dalla matrice religiosa del club. Una squadra che da anni paga a livello di insulti e violenze per l’etichetta di credo ebraico è invece l’ Mtk Budapest, ma dall’Ungheria nessuno sinora ha pensato di prendere concreti provvedimenti a riguardo. In Germania e Austria le ferite dell’Olocausto hanno sinora impedito persino il riavvicinamento fra realtà ebraiche e calcio. Prima della guerra squadre come Bayer Monaco e Austria Vienna avevano presidenti ebrei, ma una volta terminato il conflitto nessuno si è sognato di andare a riallacciare un filo interrotto tanto tragicamente. Il giornalista tedesco Raffael Honigstein spiega che in Germania si è tenuto un profilo molto basso e lo shock è stato talmente forte che nessuno poteva pensare che per un tifoso potesse far tendenza addirittura sbandierare la propria identità ebraica.
Eidur Gudjohnsen, ex attaccante islandese in prestito al Tottenham Hotspur, fu immortalato durante una festa col braccio destro sollevato, in un gesto che il Daily Star e il Daily Mirror catalogarono come saluto nazista. A modo suo un’altra storia di Shoah, un piccolo grande Olocausto della memoria è rappresentato dalla figura di Arpàd Weisz (la sua storia è raccontata nel libro “Dallo scudetto ad Auschwitz” di Matteo Marani, direttore del Guerin Sportivo, editore Aliberti) ebreo che di mestiere fece dapprima il giocatore e poi il “talent scout”. Mentre l’Italia firmava le leggi contro gli ebrei, egli era all’apice della sua carriera, fra stadi e panchine. Era il 1938 e mentre il fascismo varava le sue direttive razziali lui faceva esultare i tifosi sugli spalti. Ha visto morire moglie e figli sotto le torture e le vessazioni naziste e si è spento in uno dei campi di sterminio tristemente più noti, Auschwitz. Ungherese di nascita e un po’ italiano d’azione, è stato un pezzo di storia del nostro pallone. Titolare nell’Inter, nel Padova e nella sua nazionale, vinse tre scudetti, una coppa, ma di lui si dimenticarono in fretta: da ebreo doveva andarsene.
Peter Erben e Zvi Cohen, due sopravvissuti all’olocausto, mostrano le maglie che il presidente della federcalcio tedesca gli ha regalato nel corso delle commemorazioni per le vittime del ghetto di Theresienstadt.
Una mostra di notevole spessore intitolata “Calciatori, combattenti e leggende” è stata dedicata ai giocatori ebrei in Germania, prima, durante e dopo il nazismo, al Centro Ebraico di Berlino. Il presidente della Federcalcio tedesca Theo Zwanziger, ha affermato che si tratta di un contributo molto importante per la rivisitazione del calcio in Germania, ricordando alcuni talentuosi calciatori ebrei appartenenti al Bayer Monaco.La mostra ha esposto una raccolta di foto, filmati, reperti storici, fra cui cartoline, bandiere, spille, incentrate sul tema dell’ antisemitismo nel calcio. Alcune fotografie mostrano striscioni con slogans e simboli dell’estrema destra razzista o tifosi allo stadio che riprendono il saluto di Hitler. All’interno della rassegna c’è anche spazio per una storia d’amore, quella fra la tedesca seguace del nazismo, Lilli Wust e l’ebrea Felice Schragenheim: una relazione saffica durata un anno e terminata con la deportazione e morte di Felice nel 1944.
Tornando ai tempi d’oggi, meritano una particolare menzione i seguenti avvenimenti: recentemente in Spagna è stata anticipata di un’ora la partita di calcio fra Celta Vigo e Betis Siviglia, per consentire al giocatore israeliano Haim Revivo di rispettare le celebrazioni dello Yom Kippur. L’attaccante del Celta Vigo è arrivato in tempo a casa, si è lavato, cambiato d’abito e ha mangiato un boccone prima di dedicarsi al lungo digiuno e alle orazioni prescritte per il giorno del perdono. Revivo aveva fatto specificare nel contratto l’indisponibilità per l’adempimento dei suoi rituali di fede. Invece il giovane diciottenne Eyal Golasa calciatore israeliano del Maccabi Haifa ha provato la fortuna in Italia, ma gli atti di razzismo subìti lo hanno spinto a rinunciare. Non andò meglio a Ronny Rosenthal, rispedito al mittente dall’Udinese dopo fasulle visite mediche diagnosticanti problemi alla schiena. Era il 1989 e anche l’Italia – terra abituata alle migrazioni, alle accoglienze – ripudiava un ospite ebreo. I muri di Udine erano pieni di insulti verso il ragazzo. Rosenthal, con la “schiena a pezzi” si trasferì in Inghilterra dove giocò 74 partite col Liverpool, 88 col Tottenham Hotspur e 30 con il Watford, realizzando la bellezza di 33 goal, nonostante la “terribile” cartella sanitaria dell’Udinese.
Poi toccò al talento Aron Winter, ebreo di colore giunto alla Lazio dall’Ajax, il quale trovò non pochi problemi in Italia. Il primo israeliano ad avere la possibilità di giocare nel nostro calcio fu Tal Banin, arrivato a Brescia nel 1997. Tornò in patria dopo un paio di stagioni, senza sussulti e con tanti guai fisici.
Mathias SIndelar
Doveroso un riferimento letterario al libro di Nello Governato intitolato “La partita dell’ addio” (edito da Mondadori) in cui si parla di un campione che non si piegò al Fuhrer. Trattasi di Matthias Sindelar, denominato “Carta velina”, per il suo fisico asciutto, quasi scheletrico, calciatore di stile e forze ineguagliabili, che sotto un cielo d’Europa buio di guerre e di morti diventò il simbolo della ribellione civile al razzismo e al nazismo. Giocava con una fasciatura larga e rigida a protezione del ginocchio infortunato, quasi come segno distintivo. L’austriaco si rifiutò di alzare il braccio per il saluto ai gerarchi nazisti schierati in tribuna per lo storico incontro fra Austria e Germania, vinto dagli austriaci grazie a un suo goal. Sindelaar morì a 36 anni nel suo letto, giaceva accanto a lui l’italiana Camilla Castagnola, un’altra ebrea. La loro fine non venne mai chiarita.
E infine un caso, perché di caso effettivamente si tratta e sottolinea ancora una volta quanto calcio, politica e religione siano profondamente legati all’interno della nostra società:
IL CASO
L’ Arsenal sotto accusa: «Cori razzisti»
MINACCIA DI CAUSA Tre tifosi denunciano il proprio club: permette insulti antisemiti ai rivali del Tottenham
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE a LONDRA – “Tre tifosi dell’ Arsenal vogliono portare in tribunale il loro club per razzismo. Sugli spalti dello stadio Emirates a Londra si sentono cori contro il Tottenham, squadra che ha radici ebraiche: i sostenitori dei Gunners chiamano quelli degli Spurs «Yiddos». Il termine Yids o Yiddos discende dal germanico Jude e, secondo l’ avvocato specialista in diritti umani a cui si sono rivolti i tre fan indignati, ha una connotazione di insulto, tale da infrangere il Race Relations Act, la legge britannica sulle relazioni razziali. L’ avvocato ha scritto al presidente dell’ Arsenal, Peter Hill-Wood, chiedendo un’ azione immediata per evitare che i suoi clienti, che sono abbonati, «si vedano costretti a citare la società in giudizio per violazione del contratto». L’ Arsenal ha infatti adottato come molte altre squadre britanniche una politica di tolleranza zero contro violenza e razzismo sugli spalti.
I tifosi della squadra guidata da Arsène Wenger sostengono che il loro atteggiamento non è discriminatorio, perché i «cugini» del Tottenham sono i primi a definirsi «Yid Army», orgogliosi della tradizione ebraica del club. Ma i tre abbonati, un ebreo, un musulmano e un cristiano, e il loro avvocato non sono d’ accordo: gli Spurs sono i tradizionali rivali dei Gunners e quei cori sono chiaramente antisemiti e offensivi. La lettera del legale spiega che l’ Arsenal ha un obbligo contrattuale nei confronti degli abbonati di evitare manifestazioni razziste, offensive, violente. La situazione dell’ Arsenal è delicata. Il nuovo stadio che dalla scorsa stagione ha sostituito il vecchio e glorioso Highbury è stato costruito con fondi degli Emirati Arabi, che hanno imposto il nome Emirates. Ma la società ha anche concluso un contratto di sponsorizzazione con il ministero del Turismo israeliano: l’ immagine dei giocatori viene usata per pubblicizzare le bellezze naturali di Israele e promuoverlo come meta di vacanze. Un fatto curioso, visto che gli Emirati non hanno relazioni diplomatiche con Gerusalemme”.