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Calcio popolare, perché la passione non è una merce
Creato il 21 aprile 2014 da Stefano Pagnozzi @StefPag82Interessante articolo tratto da inchieste.repubblica.itsulle realtà del calcio popolare dilettantistico che ripartono dal basso, dalla passione della gente.
di MATTEO TONELLI
Gli ultimi romantici. Tradizionalisti. Nostalgici. Ma anche straordinariamente attuali. Chissà che il senso vero del calcio non si nasconda proprio su quelle gradinate di assi e tubi innocenti che fanno da corollario a spelacchiati campi di periferia. Tra quei tifosi che hanno abbandonato il roboante e plastificato palcoscenico del calcio dei big e dei miliardi delle tv, rifugiandosi nelle serie minori. Inventandosi nuove squadre da seguire. All'insegna di un vero e proprio downshifting calcistico.
L'inchiesta di Repubblica lo spiega bene: da nord a sud aumentano le squadre "popolari", quelle che si richiamano al calcio come era (e come dovrebbe essere ancora). Lontano dai divismi di calciatori che assomigliano sempre più a fotomodelli, distanti da tornelli, tessere del tifoso, biglietti nominali e perquisizioni che rendono la domenica allo stadio un calvario.
Vicini, l'uno all'altro, con bandiere e fumogeni (che negli stadi dei "grandi" formalmente sono vietati). Una birra in mano (anche questa in Italia è vietata mentre altrove è venduta dentro lo stadio...). Una bandiera e la sciarpa al collo. Perché se è vero, come scriveva Pasolini, che il calcio "è l'ultima rappresentazione sacra del nostro tempo", i tifosi, questi tifosi, sembrano esserne i reali profeti: Ardita, Atletico San Lorenzo, Quartograd, Centro Storico Lebowski e molti altri.
E non succede mica solo da noi. In Inghilterra fioriscono gli esempi dei tifosi che si sono organizzati e hanno detto no alla commercializzazione della loro passione. Se il caso più eclatante è quello pluricitato di Manchester, l'ultima battaglia inglese si sta combattendo a Hull, dove il nuovo presidente ha deciso di cambiare nome alla squadra. Da Hull a Tigers, in un rinnovato eterno braccio di ferro tra le necessità del business che si è mangiato il calcio e quelle della passione per la sfera di cuoio. Perché, stringi stringi, ha ragione John King quando, nel suo libro culto "Fedeli alla tribù", scandisce: "A nessuna industria della televisione sembra che gli interessi dei tifosi, ma senza l'urlo e il movimento del pubblico il calcio sarebbe uno zero. È una storia di passione. Sarà sempre così. Senza la passione il football è morto. Solo 22 uomini grandi e grossi che corrono su un prato e danno calci ad una palla. Proprio una gran cagata. È la tifoseria che lo fa diventare una cosa importante". È per questo che a seguire le nuove squadre popolari trovi gente che ha smesso di andare a vedere la squadra del cuore in serie A e si è reinventato tifoso. Di una nuova squadra? No, di una passione chiamata calcio.
Fonte: Le Inchieste di Repubblica
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