Non ci giriamo intorno, il disco di Calcutta è uno degli eventi più originali e stimolanti dell’anno. Tutto gira per il verso giusto: quel dare del tu a Daniel Johnston, bellissimi testi acutamente ironici e dunque profondamente malinconici, in cui le parole hanno però un peso specifico leggero, sarà per quei suoni giocattolosi che ti si stampano nel cervello al primo mezzo ascolto o per quell’atmosfera di insicurezza che rende questi solipsismi crepuscolari di una genuinità assoluta e con robuste velleità di permanenza. La storia è poi curiosa, con l’ennesimo ragazzo che imbraccia privatamente una chitarra, scrive belle canzoni ma non si convince a pubblicarle.
Sarà un colpo di genio davvero insolito dei suoi amici musicisti a spingerlo a cambiare idea, ossia la realizzazione di un disco tributo, pur di non disperdere il valore di canzoni ancora tecnicamente inesistenti se non nella stanza o nelle serate in cui Calcutta si metteva a suonarle, non troppo lontano geograficamente da quel Flavio Giurato che risulta anche esteticamente affine. Sarà forse anche per questo che “Forse…” è capace di farci amare tutte le nostre insicurezze, anche se per poco e male, in un’Italia congenitamente in debito di ossigeno sonoro e polpa di quotidianeità. E’ poi difficile separare questo grigissimo cantautorato dalla condizione della generazione dei nati negli anni ’80 che in tanti nuovi cantautori e band provano a raccontare in modo definitivo risultando però provvisori e circoscritti. Cosa manca? Forse rabbia e una sincera indolenza. Quella di Calcutta reca autorevolezza proprio perchè debole, guasta, suonata e registrata con piena consapevolezza della propria poetica e priva di futili megalomanie.
Continua a leggere qui: http://www.impattosonoro.it/2013/10/15/recensioni/calcutta-forse/