Calvario
di Michael McDonagh
con Brendan Gleason, Kelly Reilly, Chris O'Dowd
UK, 2013
genere, drammatico
durata, 101'
Che ci sia continuo bisogno di far arieggiare i locali
abitati dal cinema contemporaneo, di questi tempi, è sotto gli occhi di tutti. A farsi carico di
questa necessità, tra gli altri, anche se dalle nostre parti un po’ in sordina,
è arrivato John Michael McDonagh - da non confondere con il fratello Martin,
autore di “Sette psicopatici” -, prima con l’esuberante “The Guard” (2011),
adesso con “Calvary”, che sarà nelle sale italiane a partire dal 14 maggio
2015. Il film è ambientato in un paesello sulla costa dell’Irlanda dell’Ovest e
narra di James Lavelle, prete di una piccola parrocchia. La storia si apre
durante la confessione di un penitente che, stuprato da un prete vent’anni
prima, minaccia di uccidere Lavelle la domenica seguente.
Nonostante il drastico cambiamento di toni rispetto all’opera
precedente, senza rinunciare al suo stile, McDonagh sembra essere a proprio
agio nel trattare tematiche come la spiritualità individuale e l’influenza
della religione nella cultura occidentale e ad inserirle senza alcuna forzatura
in un’impacchettatura solo in apparenza a metà tra noir e dark comedy.
Procedendo nell’arco temporale che separa la sequenza d’apertura dall’omicidio
annunciato nella stessa, “Calvary” ha i suoi migliori pregi in una scrittura
iper-ragionata e lenta nel proprio incedere, e nella fotografia di Larry Smith -
“Eyes Wide Shut”; “Bronson”; “Only God Forgives” – che restituisce
perfettamente sia le tonalità grigie e Joyceiane dell’ambientazione che il
percorso psicologico/esistenziale del protagonista, paragonato, come suggerito
dal titolo, alla salita affrontata da Cristo andando verso la propria
crocifissione.
Ciò che rende “Calvary” definitivamente un capolavoro, oltre
i motivi sopra descritti, nonché l’interpretazione di Brendon Gleeson, è l’abilità
del regista nell’indagare circa un linguaggio cinematografico Nuovo - si veda
la scena dell’uccisione mantenuta solenne nonostante l’utilizzo del rallenty e del jump cut - eludendo costantemente, in ogni fase, la trappola dell’Ovvio.
Antonio Romagnoli