Per un verso liberatorio, il cambio di stagione nel guardaroba mi mette sempre un po’ a disagio. Inquietudine è una parola troppo grossa per trovare in qualche pezzo di stoffa la propria origine, quindi dirò disagio, ma solo per mia naturale inclinazione a rifuggire il pathos.
Un po’ è la primavera, che mi rende malinconica. Un po’ è che amo l’autunno (e pure l’inverno, quando non è feroce).
Un po’ è che non so cosa farò, il prossimo inverno, non so immaginarlo. E lavare ripiegare riporre i maglioni di lana, mi fa pensare a quando riaprirò le scatole tra qualche mese, e saranno là a guardarmi. A guardare una me che presumo sarà uguale all’attuale, ma che magari non avrà nulla da fare, che quasi non andrà più all’Università, niente lezioni, niente esami, niente mensa. (Che poi ti accorgi che potevi andarci un po’ più spesso, alla mensa. Ma te ne accorgi che l’Università è puf! bella e finita.)
E’ un po’ come per il giovane Andy che, diciassettenne in Toy Story 3, deve riporre in un sacco i vecchi giocattoli nascosti in qualche pertugio della stanza, prima di partire per il college. Okay, okay, non è la stessa cosa. Però un po’ ci somiglia: oggetti che ci hanno accompagnato per un po’; la selezione tra cosa riporre e cosa dare via; la riscoperta di qualcosa che non ricordavamo di avere… E poi, comunque, quel film non l’ho visto.
Mi piace l’autunno perché promette attività. A me piace fare. Odio i lunghi periodi di tedio, che ti inducono a riflettere più del sopportabile. Di noia, si muore.
E così, riaprire i cassetti in cui ripongo gli indumenti autunnali, mi accende della speranza del fare. O almeno, così è sempre stato. A settembre, quando si andava a scuola, il profumo dei libri, e delle matite. All’Università, nuovi cicli di lezioni. Ma ora?
Odio i capitoli che si chiudono. E le conclusioni mi impediscono di godere dei nuovi inizi.