Dal punto di vista tematico, invece, Dumont rimane fedele alla propria linea. Si è ripetuto innumerevoli volte che l’argomento presente più d’ogni altro nella sua carriera è stato la religione. Lo scarto netto tra un approccio ordinario ed uno terroristico che gli si confà perfettamente ha permesso di creare voragini dentro il senso di concetti come Dio, Miracolo, Fede, Sacrificio, Diavolo, Visione, e sempre tramite figure giustamente definite cristologiche, un team che si arricchisce della presenza di Camille: la prima inquadratura vede la donna ripresa di spalle, benvenuti nel suo mondo: provate a soffrire come sta soffrendo lei. In assenza dell’ispirazione paesaggistica, il regista punta il mirino sul paesaggio corporale della Binoche, sfigurata ed emaciata, nel bel mezzo della sua via crucis. La centralità Binoche/Claudel, rimarcata dalla locandina, si evince anche dal fatto che la protagonista, circondata da infermi mentali dai tratti lombrosiani, deformi, quando invece di solito le figure lombrosiane, ad esclusione di Hadewijch (2009), giustappunto un’altra storia con intenti biografici, erano gli attori principali, spicca per lucidità e regolarità, anche anatomica, al cospetto della follia circostante. Alla dimensione solitaria si subordina la questione religiosa, per la prima volta, forse, questo non è più un Dumont che svela l’insondabile lasciandoci attoniti, piuttosto un Dumont che addita la sterilità della fede: uno dei pazienti domanda ad una suora dove sia Dio, il fratello Paul, putrida declinazione dell’indrottinato: il fanatico-egotico, sproloquia insensatamente verso il Signore. E Camille, una versione muliebre del Pharaon de L’umanità (1999), che si affida ostinatamente alla preghiera. Noi sappiamo che non c’è speranza lì dentro, ma lei no, ed è per questo che per chi scrive Camille Claudel 1915 ha una portata più accusatoria della fede che esplorativa.
In questi termini è inevitabile che lo spettro analitico non raggiunga profondità così inesplorate, parimenti l’inesausta ricerca di Bruno Dumont della religiosità attraverso il cinema può anche contemplare esemplari meno radicali. E comunque, a prescindere dalla minor estasi, nel finale, con l’immagine frontale di Camille per la prima volta rischiarata da un timido sole, presenziamo alla plausibile nonché unica stimolazione del tessuto percettivo, quel raggio di luce sembra essere il solo segno di pietasdell’intero film, la cifra del divario incolmabile tra chi sta in cielo e chi sta in terra.