Poeta intimo e disperato, Camillo Sbarbaro, di una disperazione derivante dal suo sentirsi inadeguato al mondo, ma mai risolta, come in Campana e in Rebora, nello stridore dei versi, nell’evocazione apocalittica; bensì, nel ripiegamento, nella rinuncia totale alla mondanità, nel buon ritiro, confortato da poche piccole cose: il bicchiere di vino all’osteria, il paesaggio ligure fatto di “case, ammonticchiate come pecore contro l’acquazzone” (Voze), la passione per la botanica, sviluppata con tale dedizione da portarlo, autodidatta e con attrezzi da boy scout, ad avere collaborazioni con gli ambienti accademici di mezzo mondo. Per i licheni, “muffa più fungo, due debolezze che fanno una forza”, Sbarbaro aveva un interesse addirittura maniacale, giustificato dal loro essere poveri e modesti, ma coriacemente attaccati alla vita.
Poeta del levare, michelangiolescamente inteso, della ricerca certosina della nudità della parola, dell’autenticità. In questo, Sbarbaro mostrava un’assoluta coerenza col suo essere uomo, capace di rinunciare alla cattedra del liceo dei Gesuiti di Genova nel 1927, pur di non fare la tessera del Partito Fascista; e ciò, più per la sua insofferenza ad ogni irreggimentazione, che per un reale impegno antifascista. Preferiva vivere di ripetizioni di greco, di piccole collaborazioni letterarie e botaniche, che rinunciare alla propria autonomia per un lavoro stabile.
La sua opera consta di raccolte di poesie (Resine, 1911; Pianissimo, 1915; Rimanenze, 1955), prose frammentarie (Trucioli, 1920; Liquidazione, 1928; Fuochi fatui, 1956; Gocce, 1963), saggi di botanica (Il paradiso dei licheni, 1966) e numerose traduzioni dei tragici greci e dei grandi romanzieri dell’ottocento francese. Tra i suoi estimatori, Eugenio Montale, ligure come lui, che lo omaggerà abbondantemente in Ossi di seppia.
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