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Giovedì 3 novembre 2011
Quando mi assale il sentimento della vergogna, anch’io cerco di sparire dalla circolazione. Mi chiudo anche per anni negli spazi in cui è possibile evitare i contatti più dolorosi e sgradevoli. E aspetto.
L’ingenua considerazione del tempo, che ci porta a pensare che il trascorrere del tempo placherà le ire di chi prova rancore o disprezzo nei nostri confronti, non è sbagliata. Ma non è sempre così, perché c’è chi non perdona: c’è chi non solo non è disposto a dimenticare, ma non concederebbe mai un perdono che si configura come imprescrittibile, irredimibile. E’ l’imperdonabile per eccellenza. D’altra parte, si mostra a noi un’evidenza innegabile: riceviamo ripetute conferme che nulla è cambiato…
Altra cosa è il riemergere dei ricordi: allora, provvediamo noi a crocifiggerci, ricorrendo a chiodi e martello e approntando più volte la scena del martirio.
Immaginiamo ora cosa possa essere l’esistenza di un ragazzo che non ha avuto ancora molto dalla vita e che si ritrovi nel bel mezzo di una dipendenza, e che non ricordi più come ci sia arrivato. Non possiamo fare a meno di pensare oggi che quella che io chiamo esistenza spezzata – perché il tempo della coscienza si è contratto, fino ad arrestarsi il suo flusso ‘progettuale’, la sua naturale protensione verso il futuro – sia solcata anche dal sentimento della vergogna, per i troppi errori commessi: chi si ritrova di fronte all’imperdonabile più grande non vorrà eclissarsi, occupare il minor spazio possibile? E quale perdono vorrà invocare per sé? quanti lo reclamerebbero? da dove cominciare? …
Abbiamo fatto in questi venti anni e più di lavoro con i ragazzi ripetutamente l’esperienza della loro ‘incapacità’ di chiedere perdono. Ma se penso ai miei errori ‘imperdonabili’, mi chiedo come sia possibile senza l’aiuto di chi pure ha subito da noi il torto!
Eugenio Borgna per definire la tossicomania utilizza l’espressione: il fascino insondabile della dissolvenza. La fascinazione del nulla è presente anche nell’esperienza della vergogna. Vorremmo avere a disposizione un luogo sicuro in cui correre a nasconderci. Ma da cosa dovremmo mai nasconderci, se non dallo sguardo severo di chi ci guarda e ci guarda e non mostra mai di avere compassione di noi, di saper comprendere – pur in presenza dell’immane, perché è così che noi viviamo l’irreale scena in cui siamo stati scaraventati – e perdonare, anche senza necessariamente dimenticare?
Perché i ragazzi più sfortunati, quelli più caparbiamente attaccati al piacere e alla felicità, non meritano lo sguardo che non si nega nemmeno a un cane di chi pure potrebbe con un sì aiutare a risalire la china, restituendo dignità e speranza a una coscienza che è solo ‘malata’ d’amore e che non sa quanto capriccioso sia il dèmone che lo incarna e come facilmente ci porti ad errare lasciandoci errare solitari nella piazza affollata?
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Ciò che pregavi con amore,
che come cosa sacra custodivi,
il destino alle vane ciance umane
ha abbandonato per ludibrio. La folla entrò, la folla irruppe
entro il sacrario dell’anima tua,
e di misteri e di sacrifici ad essa
aperti tu arrossisti tuo malgrado.
Ah, fosse mai che le ali vive
dell’anima librata sulla folla
potessero salvarla dall’assalto
dell’immortale volgarità umana!FËDOR TJUTCEV
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