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Venerdì 10 febbraio 2012
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Il quotidiano la Repub- blica annuncia oggi l’u- scita, per i tipi di Einaudi, dell’ultima opera di Vla- dimir Jankélévitch, Da qualche parte nell’incom- piuto, pp.XXVIII-220.
Articolato, come un vero tessuto vivente, lungo un percorso che trascorre dalla filosofia morale alla ri- flessione politica, dall’analisi letteraria all’esperienza musi- cale, esso trova il proprio epicentro in un’interroga- zione intensa e radicale della pratica quotidiana. Che significato conferire allo scorrere, apparentemente insensato, dei giorni? Come rispondere delle proprie azioni in un mondo caratterizzato dalla sconnessione dei valori e dall’assenza di fondamenti? E che rapporto instituire con quelle degli altri, quando esse, come nella stagione nazista – vissuta in prima persona dall’autore – assumono il volto insostenibile della menzogna e della violenza? La risposta di Jankélévitch si situa nel difficile punto d’incrocio fra irreversibilità indelebile del passato e contingenza indeterminata dell’avvenire. Come in uno spartito musicale, solo la capacità di seguire il ritmo dell’esistenza nel suo battito alternante consente di stringere in uno stesso nodo rigore e duttilità, responsabilità e intelligenza, profondità e leggerezza. Nelle pagine di questo libro si delinea, forse per la prima volta in tutta la sua complessa figura e in tutta la ricchezza dei suoi registri tematici, il profilo di un pensiero che, per la sua originalità e forza morale, trova pochi riscontri nella filosofia contemporanea. [Scheda di presentazione dell'Editore]
Il filosofo Roberto Esposito presenta oggi il libro sul quotidiano “la Repubblica”: La filosofia del “non so che”. Jankélévitch, esploratore del pensiero quotidiano.
“[...] considerando l’intera realtà un flusso temporale in continuo mutamento, egli esclude che si possa accedere all’essenza ultima delle cose, che resta così imperscrutabile e ineffabile. Ma proprio per questo, all’interno dell’unico mondo in cui si snoda la nostra vita abbiamo piena libertà di comportamento e dunque tutta la responsabilità delle nostre azioni. [...] Il punto da cogliere, per penetrare nel nucleo più intimo del discorso di Jankélévitch [...] è che la sfera del mistico, o del sacro, non trascende il piano quotidiano, ma fa tutt’uno con esso. [...] E’ così che tutte quelle che possono sembrare delle aporie non sono altro che la paradossale convergenza dei contrari sottesa all’intera riflessione di Jankélévitch. Essi, tutt’altro che escludersi, o ricomporsi in una sintesi dialettica, si coappartengono, fino a costituire l’uno il cuore segreto dell’altro. Così accade nella sfera dell’etica, per il rapporto, apparentemente antinomico, tra l’esperienza del perdono e l’irredimibilità della colpa. Una volta fatto, il male non si cancella – nulla può portare in vita l’esistenza violata o distrutta, come quella del popolo ebraico nel genocidio. Da questo punto di vista il crimine in sé è imperdonabile. Ma proprio ciò che è imperdonabile sfida il perdono a toccare il suo margine più estremo, come un amore non ricambiato è, più di ogni altro, il “puro amore” – atto di dedizione assoluta, senza condizioni o ricompense. E’ la stessa relazione contraddittoria che lega in un unico nodo musica e silenzio. Non soltanto la musica è circondata, scandita, inaugurata dal silenzio. Nel suo fondo inascoltato, è silenzio essa stessa. La musica vive del silenzio, come nel pianissimo di Albéniz, nei passaggi tonali di Debussy, nelle battute mute di Liszt. [...] E che altro è la vita, per venire all’ultimo contrasto, se non il contrario e il luogo elettivo della morte? Più che ciò che resiste alla morte [...] la vita è ciò che resiste a qualcosa che è essa stessa. Essa è la prima contraddizione da cui tutte le altre provengono. Perciò l’immagine minacciosa dello scheletro con la falce è insieme errata e giusta. La morte non è un drago che aggredisca la vita dall’esterno, ma una forza della vita che, senza dirci come, dove e quando, nasce al suo interno fino ad inghiottirla nel suo vuoto di senso”.