Eccolo lo spartiacque della storia democratica d’Italia, l’avvento della Prima, lugubre, Repubblica, la linea di partenza di una nuova fase, lo sparo in alto verso la corsa frenetica della conquista delle masse, più elementi elettorali che corpo di diritto vero e proprio: il 2 giugno 1946. E, quando si dice 2 giugno 1946, si intende l’intero contesto spazio-temporale che lo racchiude e lo netta. Città, paesi, piazze da un lato, ore, giorni, settimane, mesi dall’altro. Un plasmarsi duale. Dal gennaio al giugno, furono le bandiere e le voci a prendere le piazze, a ritagliare alla politica quelle zone fino a qualche tempo prima interdette. Due le fazioni, due addirittura i tricolori: quello con lo stemma sabaudo che garriva al suono della Marcia Reale e quello con il bianco “puro”. Da un lato Partito Monarchico (quel che ne rimaneva, per lo meno), ampi settori democristiani e cattolici, la totalità dei qualunquisti (che ne vedeva un balzo ai fasti liberali), qualche liberale; dall’altro, convintamente, socialisti e comunisti (per i quali, la Repubblica popolare rappresentava il primo passo verso il glorioso cammino socialista), repubblicani, azionisti, pochi liberali e coraggiosi cattolici (pochissimi). Rispetto al primo questo secondo gruppo era indubbiamente più compatto, meno sfilacciato. Idealmente convinto e trainato, sostanzialmente, dai partiti marxisti, il blocco repubblicano non cedette neppure per un tratto di strada alle sirene dell’incerto. Scevro da condizionamenti esterni, seppe fare della costanza battente la sua forza, puntando, inoltre, sul binomio Monarchia – fascismo.
Di contro, soprattutto in casa Dc, Alcide De Gasperi non seppe trovare una quadra strategica, chiuso a tenaglia com’era tra laicismo e cattolicesimo. Fu così che il Vaticano entrò appieno nella contesa, sponsorizzando la Monarchia (anche con il famoso ritornello “Scegliete per Dio ed il Re”), patrocinando (anche finanziariamente e logisticamente) il blocco anti repubblicano ed obbligando la Democrazia Cristiana ad una semplice opera di comprimaria. La campagna elettorale, di fatto la prima dell’era contemporanea (prima di allora non v’era suffragio universale e, quindi, la partecipazione finiva per essere risicata e meno emozionalmente sentita), sviscerò i sentimenti repressi, dando sfogo a vizi e virtù italiche. In campo, tutti gli elementi sociali. Accanto ai partiti, le associazioni, la Chiesa, gruppi sportivi, scout e Madonne. La votazione, più che in altri frangenti (anche se meno rispetto a quanto avverrà due anni più tardi), mise in luce le contraddizioni di un popolo soltanto all’apparenza unito. le croci sulle schede divennero questioni di vita e di morte. Conquistarle alla propria parte politica una missione più ancora che un impegno. Per questo, non mancarono tensioni e rivalità in misura molto maggiore che rispetto alle amministrative. Scontri ed incidenti erano all’ordine del giorno.
Ovunque in Italia, con una netta evidenziazione nel Meridione (senza l’eccezione della Capitanata), propagandare si traduceva anche nel boicottaggio dell’avversario. Fu, quella per il Referendum, una vera e propria battaglia. Il miglior bastone fra le ruote propagandistiche era, ovviamente, la chiassata. Vere e proprie manifestazioni di disturbo erano organizzate in ottemperanza al politically scorrect. Bambini e ragazzetti di strada venivano sobillati, in cambio di pochi spiccioli, acchè producessero urla e strepiti in date ore ed in dati posti. Manco a dirlo, quelle e quelli dei comizi. L’aria era particolarmente frizzante. Ringalluzziti dai buoni risultati conseguiti alle amministrative – dove avevano conquistato i maggiori centri – i social comunisti puntarono ad alzare la mira ed a capovolgere un verdetto che, in Capitanata almeno, pareva già scritto. E, con la mira, s’alzò anche il tono. Con conseguenza sull’ordine pubblico.
L’obiettivo era quello di palesare le incertezze soprattutto del maggiore dei partiti monarchici, la Dc. E di farlo in pubblico. Ad esempio, il 6 maggio, a poco meno di un mese dal voto, a Manfredonia scoppiarono incidenti perché, durante un comizio, il candidato Dc Raffaele Pio Petrilli tergiversò a dichiararsi. Scaramucce politiche, vero. Ma, con il passare dei giorni e con l’acuirsi della tensione, schizzò anche il picco di pericolosità. Finchè, il 26 maggio, a San marco in Lamis, un qualunquista venne accoltellato a seguito di una rissa scoppiata con alcuni comunisti. I documenti delle forze dell’ordine segnalarono analoghi incidenti – pur senza vittime – nei comuni di Cagnano, Candela, San Giovanni e Torremaggiore. Ma, al di là delle tensioni, la campagna del 1946 si conformò anche come il primo confronto – scontro fra idee diverse. Con tanto di tentativi incrociati di sottrarre voti alla fazione opposta tramite messaggi di natura trasversale. Fu così che, da sinistra, più di una volta, si sfociò nel teologico e, dal cattolicesimo, nel politico più profondo. Battaglie cartacee di manifesti, volantini, comizi. E parole, parole, parole. Tante parole per istruire, indottrinare, convincere. Talvolta senza neppure spiegare a fondo le ragioni. A riprova di quanto appena detto, la Biblioteca di Foggia conserva un documento di eccezionale valore, firmato dal blocco dell’Alleanza repubblicana. In risposta alla propaganda ecclesiastica ed al continuo pungolo che questa esercitava sulle donne, l’Ad redisse un volantino intitolato semplicemente “Dedicato alle donne”. E Gesù Cristo entrò in campagna elettorale come una sorta di rivoluzionario socialista ante litteram: “Morto sulla croce predicando l’uguaglianza degli uomini e la libertà degli uomini e disprezzando i privilegi e le ingiustizie sociali”. Come dire: l’opposto di quanto espresso dai partiti erti a baluardo della conservazione monarchica. Non è tutto. Per dar credito alla tesi, il concetto venne sottolineato con tanto di citazione di San Girolamo, secondo cui “pazzo è colui che sopporta di vivere sotto un re”.
È uno degli innumerevoli casi in cui Santi e Figli di Dio vennero “tirati per la giacchetta”. Meglio, per la tonaca. D’altra parte, agli osservatori più acuti non poteva che interessare soprattutto un altro fattore, ben più pesante e determinante per le sorti del voto. Ovvero, la presenza, sul suolo italico, delle truppe angloamericane. Vicini alla Chiesa ed ai democristiani (in verità più per opportunismo politico che per vera convinzione religiosa), i governi militari premevano contro la Repubblica per timore che fosse, come detto, l’inizio del cammino verso il socialismo. O, almeno, verso un sistema politico tale da rendere l’Italia non assuefatta, nei bisogni, al denaro straniero. Quindi, di riflesso, difficilmente controllabile politicamente. Michele Lanzetta, segretario azionista di Capitanata, un mese prima del voto, indirizzò una lettera al Corriere di Foggia proprio con l’intento di mettere in luce il pericolo alleato: “I promessi interventi – scrisse – di potenze straniere desiderose di aiutarci o della Monarchia al di sopra ed al di fuori dei partiti sono fanfaluche”. Il fronte monarchico, al contrario, non era del tutto convinto dell’associazione fra repubblica e marxismo. Il connubio fu un’evidente forzatura strategica per mettere in cattiva luce i sostenitori del nuovo sistema istituzionale e per spaventare le masse. Rimane a tutto diritto nella storia del tempo un volantino redatto dall’Uomo Qualunque e fatto girare praticamente in ogni ganglo della Capitanata. non ne rimangono molte copie. L’unica è conservata nel Fondo Simone della Magna capitana di Foggia. Lo riportiamo per intero:
Io credo in Nenni, dittatore e creatore del caos e del disordine, ed in Togliatti, suo unico figliuolo, nostro tiranno, il quale fu concepito per opera di Satana, nacque da promessa fallace, patì sotto benito Mussolini, perseguitato e seppellito (dice lui!) e dopo vent’anni risuscitò da morte, riscese in Italia, salì al Governo ove siede alla destra di Nenni, dittatore, di là da venire a giudicare i miseri e gli onesti. Credo nel socialcomunismo, nella distruzione dell’Italia, nella miseria dei poveri, nell’annullamento della giustizia, nella morte di tutti e così sarà.
Nenni, Togliatti, Stalin. Il comunismo e l’anticomunismo; la guerra e la fame, la dittatura, la distruzione, la miseria, la morte. La strada della pubblicizzazione ideale dei monarchici era segnata lungo questi binari. Sostanzialmente in stallo, la Dc si aggregò al traino. Un numero sempre maggiore di pubblicazioni hanno dimostrato dell’imbarazzo del segretario De Gasperi di fronte allo strapotere curiale. Tuttavia, nessuna levata di scudi sopravvenne dai settori democristiani. Anche se, va detto, non tutti accettarono di schierarsi con i Savoia. E lo stesso De Gasperi non ha mai fatto totale luce sul suo voto. Ma la corrente monarchica democristiana era realmente forte. Un volantino propagandistico riportò una frase attribuita a da De Gasperi: “Siete sicuri di esser pronti per la Repubblica? Io, comunque, non vi posso garantire che la Repubblica sarà democristiana”. Nulla di dimostrabile, comunque.
Ma l’incertezza fu fortissima soprattutto fra la gente. Emblematico è un trafiletto riportato ne Il Corriere di Foggia, riportante un simpatico siparietto tra un giornalista della testata ed un cittadino del capoluogo, avvenuto pochissime ore prima delle elezioni:
Parla Saragat. Un tale che mi è vicino applaude calorosamente e si mostra compiaciuto della dichiarazione dell’illustre esponente socialista. Gli chiedo: “Mi scusi, ma lei poco fa non applaudiva anche quando parlava De Gasperi e quando suonava la Marcia Regale?” L’altro, piuttosto risentito, mi fa: “Che c’è da stupirsi? Non sono forse libero di applaudire chi mi pare e piace? In regime democratico mi è forse impedito di farlo?” “Ma per carità – gli rispondo io – faccia pure […] ma scusi la mia indiscrezione, può dirmi per chi voterà il 2 giugno?” “Non ho ancora deciso. Ma mi regolerò in questo modo: se domenica il cielo sarà nuvoloso, voterò per la repubblica. Se ci sarà il sole, per la Monarchia. Tanto per me questa o quella…”.
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