Campi di nebbie
di Iannozzi Giuseppe
Arrivai sul posto che sopravvivevano ancora le brume della notte.
C’era una nebbia forte che si appiccava alla pelle. Aliti freddi lambivano con malizia le mie gote ancora odorose di dopobarba.
L’avevano ritrovato nel punto esatto dove tenevo piantati i piedi l’uno accanto all’altro, da bravo soldato che solo risponde a “credere obbedire combattere”. Ma la verità è che non ho mai partecipato né a destra né a sinistra: al servizio di leva ho preferito il servizio civile, ma fosse stato possibile avrei saltato a piè pari pure quello.
Il cadavere l’avevano disseppellito. Un contadino aveva visto qualcosa in mezzo alla nebbia padana. Così, di primo acchito, gli era sembrato un arbusto. Solo avvicinandosi aveva scoperto che in realtà era un braccio, o meglio il poco che ne rimaneva. In avanzato stato di decomposizione, la poca carne ch’era rimasta appiccata alle ossa bianche era stata beccata dai corvi, con tutta probabilità. Per poco quel villano non si era preso un colpo.
Il cadavere quando l’hanno tirato fuori dalla terra era nero, una mummia. C’era ben poco da vedere e capire. L’autopsia aveva stabilito che la morte era avvenuta circa un mese prima del ritrovamento del corpo: femmina bianca sulla trentina, sicuramente una donna europea forse italiana o dell’ovest, bóh!, nient’altro. Era stato stabilito che aveva ricevuto un paio di colpi in testa, che erano quelli d’un martello: ma vicino al corpo non era stata trovata l’arma del delitto. Nonostante le ricerche non fu possibile risalire all’identità della donna. L’omicidio sarebbe stato presto archiviato tra i tanti insoluti, in un cimitero di verbali.
L’alba non era ancora spuntata. Milano in lontananza però già pulsava di nervosismi palpabili: la vedevo, un grumo di cemento grigio debolmente illuminato.
Il cellulare squillò. Presi la chiamata, ma non rispose nessuno: ID sconosciuto.
Farfugliai fra me e me un “vaffanculo” e tornai ai miei pensieri, al perché ero in quel posto dimenticato da Dio ma non da alcuni figli di puttana… Più mi guardavo intorno più capivo che se volevo commettere un assassinio e seppellire il corpo quello era il luogo adatto.
Io non avevo nessuno che meritasse d’essere ammazzato. Pochi amici, di conseguenza pochi nemici, forse nemmeno uno. In effetti la mia vita sociale era uguale a zero, solo qualche saltuaria uscita alla sera coi colleghi di lavoro, per una birra o due.
Cominciai a scavare la terra con il piede, per noia.
La terra veniva via facile.
Tutto intorno era così. Terra e altra terra, campi in un bagno di nebbia che ti bagnava il viso.
Tirai un calcio, con più rabbia che noia e venne fuori qualcosa, un corpo morto simile a una colomba. Lo presi in mano, era un diario. Lo aprii. Era scritto fitto fitto. Poesie. Una calligrafia femminile. Doveva averle scritte l’assassinata senza nome. Non c’era altra spiegazione.
Quando la polizia aveva battuto l’intorno in cerca di indizi, d’una seppur debole traccia, di qualsiasi cosa che potesse indirizzarli, al solito si erano limitati a mostrarsi operativi davanti alle bocche affamate dei giornalisti. In realtà avevano fatto un giro intorno alla fossa e morta lì.
Il diario di poesie era stato sepolto ad appena un paio di metri dalla buca dov’era il corpo senza identità. Lo sfogliai rapidamente. Nessuna poesia era firmata. La prima pagina non recava alcuna indicazione utile: era stata lasciata in bianco. Tutte le pagine accoglievano una poesia, una scrittura minuta ma chiaramente femminile. Mai un titolo o una numerazione. Per ogni pagina una poesia e così fino alla fine. Il diario era perfettamente anonimo, uno di quelli che in cima alla pagina riportano mese giorno anno e fasi lunari. Nient’altro. Un diario anonimo come milioni ce ne sono al mondo.
Prima ancora di leggere avevo capito che quelle pagine erano di poesia.
Non l’ho mai sofferta la poesia.
Seppur i tempi della scuola dell’obbligo fossero lontani, ricordavo che non ero una cima: quando riuscivo a mettere giù due righe per il tema in classe era un alleluia, non solo per l’insegnante. Finite le scuole dell’obbligo non presi più in mano un libro, nemmeno le Pagine Gialle. I libri e tutte le loro immonde verità erano per me morte e sepolte.
Ed ora questo diario di poesie scritto da una ch’era morta.
Il cellulare squillò di nuovo. Al secondo squillo gridai un “pronto!”.
Nessuno. O meglio: due secondi, forse un respiro dall’altra parte, ma non posso esserne sicuro, il segnale era quel che era, disturbato. Qualcuno mi aveva chiamato per sentirmi gridare “pronto” e poi riappendere. L’aveva fatto già due volte. Non era uno che aveva sbagliato numero. Non era caduta da sé la linea. Io ne ero più che certo.
Le poesie erano in italiano.
Avrei dovuto leggerne almeno una, ma non lo feci.
Nemmeno per dovere.
Però non seppellii il diario. Sarebbe stato facile far finta di nulla.
La nebbia non voleva che saperne di scemare e l’alba tardava.
Mi passai una mano sul volto contratto. Mi sentivo già stanco e la giornata non era ancora cominciata. Portai lo sguardo ad orto nella speranza di una lama di luce. Niente di niente a parte un mare lattiginoso. Non mi sarei sorpreso se da un momento all’altro da tutto quel bianco fossero emerse delle creature spettrali. Mi strinsi nelle spalle: non credevo fosse possibile una cosa del genere, e soprattutto non credevo in un aldilà. La comunione non la feci che molto tardi: a catechismo ero un’autentica frana, neanche un amen riuscivo a digerire. E più non riuscivo più mi ostinavo a non voler imparare. Inutile dire che in chiesa non sono ben visto proprio in virtù del fatto che non mi faccio vedere davanti all’altare neanche a ogni morte di papa.
Di nuovo il cellulare.
Di nuovo immaginai che dall’altra parte ci fosse un respiro. Due secondi, non di più, poi più niente.
Seppellii il cellulare in una tasca.
La nebbia non accennava a morire, e io sentivo le membra pesanti di stanchezza.
Feci per tornare indietro, alla macchina.
In mano tenevo il diario di poesie. Mi pesava. Come piombo.
Non lo so per quanto camminai, però a un certo punto fui sicuro d’essermi perso. Tutto intorno non c’era che nebbia. Milano con il suo grigiore era scomparsa del tutto dal mio campo visivo.
In un posto così, isolato e lontano dalla civiltà, è facile lasciarsi prendere dal panico.
E’ facile lasciarsi prendere alle spalle.
Non ero turbato: non sono mai stato uno facile ai sentimenti, né a provarli né a dimostrali a chicchessia.
Nessuna paura per la morte.
Pensai il suo nome: morte.
Era la prima volta nella vita che pensavo a quel nome ma non alle sue conseguenze. Ero come un mulo: avrebbero potuto spararmi in testa e non avrei battuto ciglio.
I tre o quattro amici che ogni tanto mi spingono in società me lo ripetevano spesso che ero proprio un mulo: non provavo né amore né odio.
Il cellulare squillò.
Non era possibile, non ci sarebbe dovuto essere campo.
Mi strinsi nelle spalle e risposi.
Questa volta qualcuno rispose.
Una voce mi rimproverava: “Perché non hai letto le poesie?”
Farfugliai che non mi piacevano.
“Cosa?”
”Intendo che la poesia non mi piace. Tutta la poesia.”
Ci fu un silenzio di due secondi esatti. Ero già pronto a seppellire il telefonino nella prima tasca libera dei pantaloni, ma la voce non aveva riattaccato: “Per questo morirai…”
“D’accordo.”
In gergo avevo ricevuto una minaccia di morte. Non ne ero spaventato. Io cercavo solo la mia macchina: dovevo finire ancora di pagare le rate. Ma se c’era un modo per farla franca e tenermela a me non sarebbe dispiaciuto.
“Forse non hai capito: morirai, qui, adesso.”
“D’accordo.”
Silenzio.
“Non ti spaventa la cosa?”
“No.” Ero sincero e chiunque ci fosse dall’altra parte doveva aver percepito che non stavo bluffando.
“Ma tu, per dio, lo sai che cos’è la morte?”
”Non ci ho mai pensato.”
Di nuovo silenzio.
“Un mulo ha più cervello di te.”
“Non sei la prima persona a dirmelo.”
”Non sono una persona!”
”D’accordo. Allora diciamo che me l’hanno già detto.”
“Non vuoi sapere con chi stai parlando.”
”ID sconosciuto.”
“Nessuna curiosità?”
“Posso farne a meno della curiosità.”
“Non ti senti strano?”
“Stanco.”
“E?”
“Basta. Solo stanco, molto stanco.”
“E, come mai secondo te?”
”Non avrò digerito bene. Se arrivo alla macchina butterò giù un paio di pasticche. Mi capita di non digerire, il dottore dice che sono rallentato ma che non c’è motivo per cui debba preoccuparmi.”
“Il dottore dice questo di te?”
“No, del mio stomaco. Credo almeno! Ora potresti riattaccare, per favore?”
“E perché?”
“Allora non riattaccare. Per me non fa poi differenza.” E così dicendo mi cacciai il cellulare in tasca.
Se non fossi riuscito ad uscire da quel mare di nebbia nessuna donna mi avrebbe pianto: mai avuto una fidanzata o una puttana che ci tenesse un minimo a me. Non che io abbia mai fatto niente per meritarmi dell’affetto sincero, del resto.
La nebbia era aumentata. Adesso non vedevo la punta del mio naso.
Un immenso silenzio era l’unico rumore, non un frusciare di ali, nemmeno quello dei corvi.
Distrattamente aprii il diario.
Che strano! Le poesie erano leggibili, come se vivessero d’una luce propria.
Quando mi svegliai, perché dovevo essermi addormentato, la nebbia era scomparsa.
Ero in un boschetto magro, di alberi scheletrici. Il sole era alto e picchiava forte.
Il diario era accanto a me, aperto sull’ultima poesia. Lo raccolsi.
Pensai che una storia così non accade tutti i giorni e che avrei potuto raccontarla al bar, magari aggiungendoci dei particolari tenebrosi.
No. Non era il caso. Non mi è mai piaciuto parlare, men che meno di me.
Un sentiero. Lo seguii a testa china. La stanchezza era passata.
Dieci minuti, non di più, ed ecco l’auto posteggiata. Non l’aveva toccata nessuno. Era solo bagnata: colpa della nebbia.
Il cellulare ce l’avevo ancora in tasca: lo tirai fuori, lo accostai all’orecchio. Era ancora in linea.
Rimasi ad ascoltare quella voce per un po’, poi sbottai, forse per la prima volta in vita mia: “Vaffanculo!”. E chiusi la conversazione.
Due giorni dopo, a rapporto dal gran Capo: le indagini erano a un punto morto. Il diario non era servito a un bel niente. Ma questo lo sapevo già da me senza che ci fosse bisogno d’una testa di cazzo a confermarmelo.
“Io ci capisco poco di poesia, ma a me sembrano buone. Peccato.”
“Lei ci capisce poco, io non so che sia una poesia.” Sbruffai: “Le faccia pubblicare.”
“Sono delle prove.”
”Senza nome.”
“E come le dovrei far pubblicare?”
“Non è detto che gliele pubblichino… ci tenti. Se non altro non sarà morta per niente.”
”Magari non voleva che venissero pubblicate.”
”Oramai è morta, ammazzata. Due colpi di martello. Dei balordi l’hanno sepolta in un campo. Un villano l’ha ritrovata. E’ stata riesumata. E’ stata sottoposta a una approfondita autopsia. Non è stato trovato nessun elemento utile alle indagini. Le devo forse ricordare che quella poveraccia, chiunque fosse, è morta a Milano?”
“Già, a Milano. Mica a Vienna o a Londra.”
“A Londra ci piove. A Vienna, non lo so. Ma a Milano c’è la nebbia, anche in estate.”
”Che diavolo significa? E perché te la prendi tanto a cuore? Non ti ho mai visto così… agitato.”
Sbruffai. “Le pubblichi, ci tenti…”, tagliai corto.
Un mese dopo il diario aveva trovato un editore.
Mi trovavo al bar, Carletto mi aveva tirato per la giacca perché gli facessi compagnia.
Il cellulare. ID sconosciuto.
“Sì, pronto!”
“Morirai. Ma non oggi.”
”Che novità!”
“Sempre la solita testa di mulo.”
“Immagino di sì.”
“No, tu non immagini.” Una pausa. “Le hai lette?”
“Non tutte”, ammisi
”E’ un inizio.”
“Ho bisogno di tempo… e poi con la poesia non me la cavo…”, farfugliai. Ero sincero.
“Sì, lo so. Eri l’ultimo della classe. Una vera tragedia.”
“Già.”
”Non sei sorpreso. Anche da bambino eri così. Poteva finire il mondo che tu non avresti fatto una piega.”
“Già.”
”Sei sempre stato di poche parole. Avevo un debole per te, ma tu non hai mai voluto accorgerti di me che ti morivo dietro.”
“Adesso è troppo tardi.”
“Potresti scrivere due righe per la prossima edizione…”
“E se dico di no, morirò?”
“Può darsi.”
“Mi ci vorrà del tempo. Non sono bravo a scrivere.”
“D’accordo.”
Annuii.
Carletto mi prese per pazzo. Quella telefonata non aveva né capo né coda.
“Chi è stato? perché?”
“Ti devo lasciare.”
All’improvviso mi sentii troppo solo. Era la prima volta che soffrivo di solitudine a Milano.
“Chi era?”, s’informò Carletto.
“Una che non puoi conoscere. Comunque non morirò.” Ruttai, poi sputai fuori un frammento di spiegazione: “Domani forse, oggi però no. Prima o poi… tocca a tutti. Ma di notte Milano è un vero schifo. Come la birra che servono qui.”
E buttai giù, a grandi sorsate, la mia birra sotto gli occhi bovini di Carletto.
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