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Campo -profughi / Manduria come Goma come altro....

Creato il 03 aprile 2011 da Marianna06

Abbiamo realmente idea di cosa sia per una persona la vita trascorsa, per molto o per poco che sia, in un campo profughi?

Perché meravigliarsi se lì possono inevitabilmente accadere le cose più orribili e inimmaginabili e il loro evento sa quasi di normalità, proprio in quanto esso si verifica nell'indifferenza generale dei vicini e dei lontani?

Fin dall'antichità l'uomo ha cercato  sempre per sé e la sua famiglia un riparo dal caldo e dal freddo, dalla pioggia e dal vento, all'interno di un "luogo" protetto, fosse pure una grotta.

In tempi come i nostri, di ritorno a novelli esodi biblici, che la Storia credeva d'aver cancellato definitivamente, ritroviamo uomini, donne, bambini, anziani, alle porte di casa "nostra" e senza un riparo.

Al massimo l'accoglienza sarebbe una tenda da campo, che tutto potrebbe garantire...ma non certo privacy e quindi protezione dall'esterno.

Da intrusi non graditi, insomma.

Andiamo con la memoria, talora volontariamente troppo corta,  ad esempio  a quello che è stato parecchi anni fa il campo-profughi di Goma, nel Nord-Kivu.

Goma, infatti, fu il triste  luogo di raduno ,nell'aprile '94, di profughi rwandesi, in maggioranza tutsi e alcuni hutu moderati, tutta gente sopravvissuta al genocidio più recente che la nostra Storia contemporanea ricordi.

Quello costato un milione di vite umane.

E tra qualche giorno, appunto , del genocidio del Rwanda ricorre il triste anniversario.

Chi non ha conosciuto, a suo tempo, l'inferno di Goma, s'affidi allora , per averne un'idea ad un testimone d'eccezione, che lì ha operato per un discreto periodo di tempo come medico.

Rick Hodes, un americano ebreo, inviato (o meglio catapultato) lì per conto del dell'JDC,  il Comitato congiunto degli ebrei americani, un'organizzazione no-profit.

Il racconto della sua esperienza personale  e professionale tra "gli ultimi" della Terra,che ha giustamente fatto il giro dei"media" di mezzo mondo, per altro  è ampiamente raccontata e con dovizia di particolari ne "Il giardino della luce", un libro- testimonianza, scritto dalla bravissima giornalista americana Marilyn Berger.

 Tornando a noi, Goma evidenziò fin dall'inizio tutte le sue carenze -dice Rick.

Servizi sanitari inesistenti, forniture insufficienti di legna, cibo, farmaci e teli di plastica.

Anzi-precisa Rick- chi girasse con un telo di plastica, quale eventuale possibile riparo, rischiava di essere aggredito. Ed è capitato sovente.

Infatti- aggiunge- a Goma il 60% dei rifugiati non aveva nulla o quasi per potersi costruire un tetto.

Bisognava andare lontano a procurarsi l'acqua per gli interventi sanitari e con automezzi, che ti piallavano ben bene il sedere, per ore ed ore, durante il tragitto.

E poi occorrevano anche buoni autisti per mettersi al riparo dall'assalto dei bambini,  fastidiosissimi in quelle circostanze, perchè capaci di saltare su qualunque veicolo in movimento.

Alla gravità dei problemi medici, in considerazione di un numero ultra- enorme di pazienti, si aggiungevano-precisa sempre il nostro Rick alla sua intervistatrice- le difficoltà di coordinamento con altri gruppi di operatori umanitari, le lungaggini burocratiche per importare apparecchiature e medicine e le indispensabili bustarelle ,richieste dalla"cleptocrazia" locale (ex-Zaire ).

Ora se questo e altro ossia sporcizia, tanfo, malattie mai viste prima, denutrizione, morte, sono tutti  gli accessori facenti parte di un pacchetto, che si chiama ovunque "campo-profughi", come racconta chi lo ha vissuto magari  dal di dentro, perché riproporlo in Italia per i profughi attualmente provenienti dall'Africa settentrionale?

Perché non ingegnarsi alla ricerca di soluzioni più "umane"?

Nessuna meraviglia se poi , chi può, fugge oggi da Manduria o, peggio, per motivi strettamente personali e degni di tutto il rispetto possibile e immaginabile da parte nostra(perché non sappiamo), tenta il suicidio.

Il Bene va fatto bene. Non bisogna dimenticarlo mai. Anche quando non è facile da fare.

 

A cura di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)

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