Sto leggendoIl mito di Sisifo, di Albert Camus, del 1942. Camus lo ha scritto quando aveva soltanto ventinove anni, e mi pare che la giovane età dell’ autore emerga in ogni parola. O almeno, nelle prime pagine, le sole che ho letto finora. Il succo del libro è la questione del senso della vita, e se valga, o meno, la pena di vivere. Alle prime righe, Camus scrive che questo è
il quesito fondamentale della filosofia. Il resto -se il mondo abbia tre dimensioni o se lo spirito abbia nove o dodici categorie- viene dopo. Questi sono giuochi: prima bisogna rispondere. E se è vero, come vuole Nietzsche, che un filosofo, per essere degno di stima, debba predicare con l’esempio, si capisce l’importanza di tale risposta, che dovrà precedere il gesto definitivo.
Un libro sul suicidio, dunque. Quando ho detto che la giovane età del suo autore si stacca nitida sopra ogni pagina, mi riferivo al fatto che le parole di Camus ci scuotono più di quanto ci facciano riflettere, (osservazione di C. Rosso, che con facilità faccio mia). Mi pare, a prima vista, un libro giovane. Il libro di uno scrittore giovane, per lettori giovani: mi riferisco soprattutto alla giovinezza anagrafica, ma pure ad una certa inesperienza di libri filosofici o giù di lì (leggere troppi libri invecchia, purtroppo o per fortuna). Un libro brillante, insomma, entusiasta e capace di entusiasmare, fresco e cupo.
La levata, il tram, le quattro ore di ufficio o di officina, la colazione, il tram, le quattro ore di lavoro, la cena, il sonno e lo svolgersi del lunedì martedì mercoledì giovedì venerdì e sabato sullo stesso ritmo… questo cammino viene seguito senza difficoltà la maggior parte del tempo. Soltanto, un giorno, sorge il “perché” e tutto comincia in una stanchezza colorata di stupore.
Il tema è ormai dei più usati, usuali, diciamolo pure, sputtanati. Però non negherete che abbia un suo fascino. E poi, soprattutto, che sia qui illustrato con efficacia e brio.
Anche gli uomini secernono l’inumano. In certe ore di lucidità, l’aspetto meccanico dei loro gesti, la loro pantomima priva di senso rendono stupido tutto ciò che li circonda. Un uomo parla a telefono, dietro un tramezzo a vetri; non lo si ode, ma si vede la sua mimica senza senso e ci si chiede perché mai egli viva. Questo malessere di fronte all’inumanità dell’uomo stesso, questa incalcolabile degradazione dell’immagine di ciò che siamo, questa “nausea”, come la chiama un autore contemporaneo, sono pure l’assurdo.
Queste pagine mi hanno riportato alla memoria un episodio, o meglio, una serie di episodi reiterati, avvenuti quando andavo a scuola.
L’esperienza dell’assurdo io l’ho fatta quando a scuola ci dettavano un’informazione da appuntarci, o quando il professore spiegava senza interazione con noi. In quei momenti, essendo l’attenzione altrui quanto più lontana dall’essere rivolta a me, riuscivo ad estraniarmi. Guardavo me stessa, gli altri, i banchi, la cattedra e mi chiedevo -più che “perché?”- “come?” Com’è che siamo tutti qua seduti in silenzio ad ascoltare? Com’è che ci siamo trovati tutti in questa aula, capaci di sedere, di saper usare una sedia, un banco, una penna? Com’è avvenuto che sappiamo scrivere, sappiamo dare un senso alle parole, siamo entrati in classe tutti quanti con dei vestiti addosso?
E, lo giuro, mi mettevo a ridacchiare. Io, vestita, seduta, con una penna in mano, prendevo appunti e ridevo di gusto.
Per me, l’assurdo -nelle sue manifestazioni più prosaiche, che sono pure le più sconvolgenti, quando le vivi con la lucidità di un’illuminazione- è la facilità di capirsi, di andare a scuola, di fare e di dire. E la coscienza dell’assurdo, una risata.