E se i suoi giochi di voce in Ege Bamyasi mi avevano fatto gridare all’horror musicale, Tago Mago ne rappresenta l’embrione e al tempo stesso un disco miliare per la sua portata innovativa. Lo avevamo detto, con Ege Bamyasi le carte era già calate da una anno, ma nel ’71 la musica dei Can era ancora tutta da scoprire, e quando uscì Tago Mago il rock tedesco non sarà più quello di prima (ammesso che ci fosse). Anche i britannici si accorsero delle potenzialità teutoniche e a Londra (anche per un motivo di sberleffo nazionalista) venne coniato il termine dispregiativo “krautrock”. Questo disco è l’emblema della genialità dei Can, la voce di Suzuki è ancora allo stato primordiale, mentre si distingue un utilizzo costante di batteria e percussioni (Jaki Liebezeit e Irmin Schmidt) e della linea di basso (Holger Czukay) talvolta bossanovata, talvolta funky.
Si parte con Paperhouse ed è una traccia deviante (che ispirerà molto dell’alternative postumo), ma già dalla successiva Mushrooms si capisce che Tago non sarà il solito disco rock degli anni ’70. Dopo Oh Yeah, si passa a tre lunghe pieces (Halleluwah, Aumgn, Peking O) dove i Can sembrano quasi infierire sull’ascoltatore con suoni ripetuti, continui, mentali, psicotici. C’è anche spazio per una chitarra in sonorità molto Cream, mentre Suzuki si atteggia a Jim Morrison. Un album da non perdere, difficile però da comprendere se non si possiede una buona base musicale. Melodia ridotta all’osso (al di là delle parti riempitive), schizzi di ansia e colori cupi dal blu di Prussia al Bruno Van Dyck. Consigliato in piccole dosi, dopo un prelavaggio a base di Frank Zappa e Brian Eno.