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“Canadair”, un racconto di Luigi Ramenghi

Creato il 07 febbraio 2015 da Criticaimpura @CriticaImpura
La Cernia

La Cernia

Di LUIGI RAMENGHI *

 Veniva in vacanza sull’isola da quattro anni, ogni anno nello stesso posto. Quattro estati prima, un collega di laboratorio, costretto all’ultimo momento a ridurre le ferie di una settimana, gli aveva proposto di approfittare per quel breve periodo della villetta che ogni giugno affittava per sé e la famiglia sulla costa sudorientale. Aveva accettato senza esitazioni. In quei fondali avrebbe esercitato in solitudine e pace l’abilità che gli era valsa la patente da sommozzatore. Trascorsa quella prima settimana, il piacere delle immersioni si era rivelato superiore alle aspettative, al punto da spingere una persona discreta come lui a chiedere al collega di lasciargli ripetere l’esperienza l’estate successiva. Alla domanda il collega in camice bianco aveva sollevato la testa dal microscopio, lui invece era rimasto chinato, aveva perfino ruotato la manopola della messa a fuoco per simulare disinvoltura. Si era sentito rispondere di trasformare l’episodio in consuetudine: avrebbe fatto comodo a entrambi, dato il rincaro degli affitti turistici. Nel vetrino sotto la lente d’ingrandimento la vita si agitava come da milioni di anni.

Anche quel giugno, il quarto di seguito, aspettò in coda con l’auto tra decine di tubi di scappamento accesi finché il portellone del traghetto si abbassò lasciando che la luce del mattino entrasse nel ponte coperto a sottolineare le occhiaie degli autisti. Terminato lo sbarco aprì il finestrino, prese una boccata d’aria di mare e contemplò per un attimo il proprio sorriso nello specchietto retrovisore. Poi guidò per chilometri lungo la costiera che serpeggiava a precipizio sugli scogli, mentre il sole gli arrossava il braccio sinistro sporto dal finestrino. Dopo tre ore di viaggio entrò nel paese nei cui dintorni sorgeva la villetta. Al supermercato si rifornì di viveri sufficienti per l’intera settimana. Mentre la commessa riempiva le buste di plastica tenne lo sguardo sulla porta-vetri. Mancavano dieci minuti di auto all’inizio della vacanza.

Ripresa la costiera, arrivò attraversando rosse sugherete e sfiorando fichi solitari alla curva, segnalata dal masso calcareo dipinto di numeri blu. Lì abbandonò l’asfalto e imboccò il solito sterrato che digradava verso il mare attraverso la macchia. Percorsi un paio di chilometri a passo d’uomo sobbalzando sulle cunette, tra volute di polvere e profumo di pitosfori, raggiunse la villetta e il suo giardino protetto dalla siepe di oleandro che si apriva sull’approdo privato.

Mentre parcheggiava sotto gli eucalipti, riusciva già a vedere i sette giorni seguenti, identici ai passati. Alzarsi presto la mattina, caricare la piccola barca a motore del collega con la borsa gialla contenente il materiale da immersione, spingerla in acqua facendola scorrere sui sassi levigati della spiaggia, quindi cabotare fino al tratto di costa prescelto, dove restare non oltre il primo pomeriggio, quando il mare cresce e le forze diminuiscono, per tornare alla spiaggia di ciottoli, tirare la barca in secco e non abbandonare la casa prima della mattina seguente, occupando il tempo riassettando, leggendo il giornale prestato dal vicino, grigliando il pesce pescato, dormendo.

Ma quel giugno le cose andarono diversamente. Per l’intera settimana maestrale e scirocco soffiarono senza sosta alternandosi, gonfiando le onde l’uno, propagando gli incendi l’altro. Tutto questo gli causò il doppio fastidio di ridurre le immersioni e aumentare le ore trascorse a terra. Né le poche faccende di casa né il giornale prestato dal vicino bastarono a tenerlo occupato. Sulle prime rovistò le stanze in cerca di un mazzo di carte per un solitario, ma dopo qualche sera si arrese e impugnò il telecomando del piccolo televisore appoggiato sul mobiletto del soggiorno, mai acceso in quattro anni.

Si ritrovò dentro un bosco in fiamme: le inquadrature fuori centro di una sughereta fumante, prese nell’entroterra a pochi chilometri da lì, scorrevano alternate ai commenti del giornalista di un’emittente tv locale; seguivano interventi di ecologi improvvisati e politici comunali, e in chiusura un pezzo sui mezzi impiegati da Protezione Civile e Corpo Forestale dello Stato contro gli incendi. Gli aerei Canadair, di cui aveva sentito parlare già l’estate precedente, erano descritti da una voce maschile fuoricampo: “… i velivoli antincendio, venduti al Corpo Forestale dalla nota ditta canadese, misurano venti metri di lunghezza e trenta di larghezza alare, caratteristiche per le quali vengono paragonati ad alianti. Sono dislocati in numero di quattro unità sul territorio insulare e vengono attivati dalla Sala Radio del Centro Operativo Aereo Unificato della capitale. Il modello CL-415, quello tecnologicamente più avanzato tra questi bombardieri d’acqua”, proseguiva la voce con enfasi, “è in grado di planare a cento chilometri orari sulle superfici lacustri o marine per riempire i propri serbatoi, attraverso un sistema di apertura dei portelli computerizzato, di molte migliaia di litri d’acqua da scaricare sugli incendi, e di ripetere l’operazione per quattro ore senza atterrare… ”.

Azzerò il volume. Nel piccolo riquadro dello schermo tv, i Canadair in volo sembravano microrganismi colorati nella lente d’ingrandimento. Seduto sul divano di fronte al mobiletto, si guardò i piedi non ancora abbronzati. Il silenzio circostante ricordava quello di certi pomeriggi in laboratorio. Ma tutta quella vegetazione scura era misteriosa. Sull’isola veniva in vacanza da quattro anni ma la notava ora per la prima volta: ferma contro le onde, secca e ventosa, percorsa da jeep e sorvolata da aerei carichi di pioggia artificiale; le fiamme pian piano la svelavano, avvolgendola di vuoto. Sentì uno strano, doloroso gonfiore, come di chi ha bevuto troppa acqua.

Seguirono due giorni di burrasca. Non ebbe il coraggio di uscire in barca. Neppure volle recarsi in paese a comprare un libro o una rivista. Chiuse il telecomando in un cassetto della credenza. Non fece nemmeno più visita al vicino, per paura di imbattersi di nuovo, anche solo per caso, negli incendi e nei Canadair. Il secondo giorno di mal tempo si svegliò con in bocca una strana sensazione, che gli restò acquattata in fondo alla gola disgustandolo con la sua assenza di sapore. Gli sarebbe passata soltanto in mare, ne era certo. I venti però non calavano; dopo il maestrale tornò lo scirocco.

Intanto lui rimaneva seduto sul divano, a guardarsi i piedi bianchi, a controllare e ricontrollare l’equipaggiamento e a fissare la fiocina infilata nella custodia, appoggiata in un angolo del salotto. Il gonfiore e il disgusto non lo abbandonavano. Sospettò di essersi contaminato in laboratorio prima della partenza. Ma no, impossibile: era sano, aveva solo bisogno dei suoi meravigliosi fondali. Semmai era colpa della noia, che lo spingeva a mangiare pur non avendo fame.

Svuotata la dispensa fino all’ultimo cracker e rimasto senza pescato da cucinare, a un giorno dalla fine della vacanza fu costretto a cenare fuori casa. In una pizzeria del paese, al momento di pagare il conto, accadde quello che aveva temuto: sul bancone accanto al registratore di cassa, distraeva il cameriere un piccolo televisore che trasmetteva riprese in diretta di un bosco incendiato nel centro dell’isola. Nonostante gli sforzi della Protezione Civile, il fuoco guadagnava terreno. Guidando verso casa, pensò per un istante che le fiamme potessero raggiungere la casa in fondo allo sterrato. La distesa di macchia mediterranea in cui era immersa sarebbe bruciata in poche ore. Durante la notte si svegliò più volte per correre in bagno credendo di vomitare acqua. Dalla gola non uscì una goccia.

Arrivò l’ultima mattina di vacanza. La spiò dall’oscurità della camera da letto, scostando con una mano la tenda della finestra. La burrasca era passata. Un alito di maestrale increspava ancora le onde, ma il cielo era azzurro, corso da rare nuvole. Nonostante le poche ore di sonno, si era svegliato presto: non poteva trascorrere l’ultimo giorno della sua vacanza nel vago odore di bruciato e nel remoto fragore di reattori che turbavano l’aria. Trangugiato un caffè forte, uscì e scaricò la borsa gialla nella pancia della barca. Seguendo con gli occhi il solco che la chiglia lasciava sulla battigia ciottolosa, pretese un finale memorabile per la sua vacanza, così da poterlo raccontare al collega del laboratorio.

Una volta a bordo puntò al largo, fendendo le onde basse. A quattro miglia dalla costa virò e cabotò per venti minuti. Quindi spense il motore.

Sedeva nella barca beccheggiante a perpendicolo sul suo punto d’immersione preferito. Aspirava la salsedine e ascoltava il silenzio. Sfilò la maglietta grigia e si sporse dal bordo per guardare il gioco dei raggi solari che sprofondano nel blu e invece sembrano salire. Il nodo d’acqua alla gola si stava sciogliendo. Compiaciuto si accarezzò la pelle tra naso e labbra, dove si era rasato perché la ventosa della maschera aderisse alla perfezione. Estrasse l’equipaggiamento dalla borsa, appoggiandolo pezzo dopo pezzo sul sedile: maschera graduata, respiratore, bombole d’ossigeno, erogatore, muta, pinne, coltello con fodera, fucile pneumatico con fiocina snodata… Si accorse che mancava la boa di segnalazione. L’aveva tolta dalla borsa qualche giorno prima per riannodare la cima e se l’era scordata sul divano. Per pochi istanti ponderò se tornare a prenderla. No, per non correre rischi sarebbe bastato riemergere di fianco alla barca.

L’orologio impermeabile al polso segnava le otto e trentaquattro. Sfilò la maglia e i calzoncini, indossò la muta. Com’era lucida, nera, aderente. Addentò il morso del respiratore e si lasciò cadere di schiena. Era in mare. Fresco, avvolgente, atteso. Non volle aprire subito gli occhi sott’acqua; prima riaffiorò, per verificare la propria posizione: intorno soltanto l’azzurro del cielo e delle onde, tre miglia più in dietro la costa, coperta di sugherete. Le immaginò crepitare nell’entroterra, sorvolate dai Canadair CL-415 con le loro vaporose code d’acqua marina in caduta. Quegli aerei lanciati in perenne sorvolo, a depredare il mondo là dove è piatto, trasparente, indifeso. Di tutto questo non indovinò che pallide volute biancastre all’orizzonte, forse tracce d’incendi lontani e domati. Non che gliene importasse molto.

Andò sotto.

Conosceva bene il fondale in quel tratto, somigliava a un isolotto sommerso, con la cima a pochi metri dalla superficie, un versante che strapiombava nel blu, l’altro che digradava irregolarmente, poroso di coralli e grotte. Aprì gli occhi. L’acqua era limpida, nonostante le mareggiate. Nuotò verso la parete. Un branco di salpe luccicava a mezza costa. Per un minuto giocò con la propria ombra sullo scoglio variopinto, mentre riprendeva confidenza con il mondo subacqueo, vuoto di odori e pieno dei gorgoglii e degli stantuffi emessi dalla sua respirazione. Controllò l’attrezzatura un’ultima volta, quindi sgambò verso il fondo, nascosto nel blu trenta metri più in basso. Godeva del dolce sforzo che le pinne chiedevano a piedi, caviglie, polpacci, cosce. Smanioso di iniziare la caccia, sperava nell’improvvisa nuvola di un polipo, nel guizzo di un sarago. Sgranò gli occhi dietro il plexiglas della maschera quando, una decina di metri sotto di lui, scorse il massiccio fluttuare di una cernia. Se non avesse spalancato la bocca violacea, da quella distanza sarebbe rimasta invisibile. Compensando calò in picchiata sul pesce, lungo forse un metro, che si nascose sotto un pietrone. Lui planò sopra il nascondiglio e attese, vicino a una chiazza di spugne, stringendo il fucile. Attese vari minuti, distraendosi giusto per controllare l’orologio. Aveva perso le speranze quando la vide, cinque o sei metri lontano, uscita da chissà dove, aggirare l’isolotto sommerso verso il fianco dolce.

La inseguì a debita distanza, deciso a infilzarla prima che sparisse in uno dei mille buchi dell’altro versante. Mentre pinneggiava pregustando i racconti con cui avrebbe incantato il collega, attraversò una corrente fredda. Allora pensò alle giornate passate in laboratorio. Tutto sommato non era molto diverso, adesso. La maschera, la muta e la profondità erano tutt’uno, un unico grande microscopio in cui sparire, in cui non sentirsi più. Non c’erano più pance gonfie né piedi bianchi, qui, adesso, ma soltanto lame di sole nel blu fitto dell’acqua, e la cernia, inquadrata nel vetrino su cui la fiocina avrebbe fatto fuoco. Quella cernia enorme. E se gli fosse scappata? E se non avesse avuto nulla da raccontare al collega, di lì a qualche giorno? Possibile che la vacanza fosse già finita e che non ci fosse scampo?

Forse fu per via di tutte queste domande, o forse per il freddo della corrente in cui era finito, che gli venne il dubbio di non avere gettato l’ancora. Ripassò con la mente la sequenza di gesti compiuti poco fa: l’ancora non riusciva a visualizzarla. Era stato troppo impaziente di abbandonarsi in mare e il risultato era che la piccola barca del collega, lassù, stava andando alla deriva. Non erano neanche le nove di mattina e poteva già contare due imperdonabili distrazioni. Ora aveva bisogno di riemergere per spannare il plexiglas della maschera. Ma non poteva interrompere. Quella era l’ultima immersione, l’unica caccia della sua vacanza. Non avrebbe avuto altre occasioni fino all’anno successivo. Cercò con gli occhi il pesce. Lo avvistò in fretta, a pochi metri da dove l’aveva lasciato prima di perdersi nei pensieri. L’avrebbe infilzato presto, quindi sarebbe sfrecciato al recupero.

D’improvviso la cernia scodò verso l’alto, sempre costeggiando lo scoglio, per fermarsi a meno di cinque metri dalla superficie. Cercava di mimetizzarsi tra le marezzature della roccia. Allora lui pinneggiò a ritroso e in salita, senza perderla di vista, volendo avvicinarsi alla preda senza violarne il campo visivo. Raggiunta la posizione di tiro, un paio di metri sotto il pelo dell’acqua, prese la mira. Tutto il mare intorno taceva per non rovinare il suo momento. In quell’istante, in quel giugno esisteva soltanto la cernia, immobile e ignara sotto di lui, appiattita nel plexiglas che la inquadrava tra qualche appannamento.

Teneva gli occhi fissi su di lei, il dito teso sul grilletto, quando fu colpito da un terrore. Percepì un’ombra sulla nuca, gigantesca. Sulle prime credette fosse l’isola, che lo guardava. Rimase in apnea per non turbare l’acqua con le bolle dell’espirazione. Doveva concentrarsi. No, non si trattava dell’isola. Qualunque cosa fosse, si muoveva. Era in avvicinamento. Allora seppe che si trattava di un Canadair. Enorme, colorato, lanciato a pelo d’acqua. Alle sue spalle. In famelica ricerca d’acqua, l’aereo non poteva sapere di lui, il piccolo sub intrappolato sotto la superficie, la cui indifesa presenza non era desumibile da nessun segno, né una boa colorata né una barca vuota.

Maschera respiratore fucile stavano per andare persi nello schianto buio in cui di lì a pochi secondi sarebbero scomparsi la cernia e il mondo. Il dolore non sarebbe nemmeno stato tanto. Avrebbe respirato acqua e perso i sensi in meno di un minuto. O forse li avrebbe persi sul colpo. Poi qualche emittente tv locale avrebbe dato la notizia del turista accidentalmente pescato dal Canadair CL-415 e rovesciato insieme con il suo carico d’acqua marina sulle sugherete in fiamme.

Si dice che in punto di morte la vita scorra davanti agli occhi. Ma lui aveva la maschera appannata. Allora la sfilò.

Quando si rese conto che la cernia era scappata e non restava altro che uscire, la vacanza era finita.

* Inedito in volume, uscito precedentemente sul blog dell’Agenzia Letteraria Vicolo Cannery il 14/04/2014. Per gentile concessione dell’autore.


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