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Candido – Leonardo Sciascia (estratto)

Creato il 12 aprile 2014 da Maxscorda @MaxScorda

12 aprile 2014 Lascia un commento

"Dei viaggi che Candido e Francesca fecero; e del loro lungo soggiorno a Torino".

Candido aveva ancora del denaro, anche se molto ne aveva speso nella campagna. Il denaro accumulato dagli avari viene fuori da tante parti, da tanti buchi: e ci vuole quella specie di avarizia che è chiamata prodigalità, perché presto da tante parti si disperda. Candido ne aveva speso: giudiziosamente, anche se folli erano state considerate le sue spese nella sentenza di interdizione; e ancora ne aveva. Aveva già deciso, prima di incontrare Francesca, di spenderlo in viaggi; e Francesca era della stessa idea. Si sarebbero poi messi a lavorare.
Francesca aveva sempre desiderato di andare in Spagna; Candido in Francia. Andarono in Spagna e in Francia. E poi anche in Egitto, in Persia, in Israele. Ma tutto era sempre come degradato rispetto a quel che ne avevano immaginato. Soltanto Barcelona, per la gente, e Parigi, per ogni cosa, non furono delusioni. Ma il bello del loro viaggiare era nell’amarsi, nel fare all’amore: come se l’essenza dei luoghi ridiventasse nei loro corpi fantasia; come se fantasia di quei luoghi, o memoria, fossero i loro corpi stessi.
Avventure, contrattempi e disguidi non ne ebbero. Amandosi e amando tutti – i camerieri, gli autisti, le guide, i vagabondi, i bambini dei quartieri popolari, gli arabi, gli ebrei – da tutti si sentivano amati. Furono anche spettatori di cose che sapevano potessero accadere e accadevano, che lette su un giornale sarebbero scivolate via senza lasciar tracce: ma viste restavano indelebili ed emblematiche. A Madrid, il giorno in cui si celebrava l’anniversario della guerra civile che Franco aveva vinto, accanto al «generalisimo» che sembrava come confitto in una barocca lastra tombale (Candido ricordava la fotografia che suo nonno si teneva in camera da letto), videro, attento e sorridente alla parata militare che sotto scorreva, l’ambasciatore della Cina di Mao. E al Cairo, piena di russi come Roma di americani, in un caffè appunto pieno di russi (tecnici, si diceva: e andavano sempre in gruppo, col passo e l’attenzione di una ronda militare), videro la polizia arrestare uno studente perché, spiegò poi un cameriere, sospettato di comunismo. La Cina comunista che rendeva omaggio a una vittoria del fascismo, la Russia comunista che aiutava un governo che metteva in carcere i comunisti: chi sa quante di queste contraddizioni, incongruenze e assurdità ci sono nel mondo – si dicevano Candido e Francesca – che ci sfuggono, che non vediamo, che vogliamo lasciarci sfuggire e non vedere. Ché a vederle, le cose si semplificano: e noi abbiamo invece bisogno di complicarle, di farne complicate analisi, di trovarne complicate cause, ragioni, giustificazioni. Ed ecco che a vederle non ne hanno più; e a soffrirle, ancora di meno.

Al ritorno in Italia, vagarono a scegliere una città in cui fermarsi e trovare lavoro. A Candido piaceva Milano, a Francesca Torino. Decisero di fermarsi a Torino. Don Antonio li raccomandò a un prete spretato e a un prete che stava per spretarsi: questo trovò lavoro a Francesca in un asilo infantile, quello a Candido in una officina meccanica. Andarono ad abitare in via Garibaldi, piena di siciliani. Avevano come ritrovato il loro paese. E ritrovarono anche il Partito Comunista, grazie ai due preti. Era molto diverso che nella loro città. I comunisti, qui, sapevano tutto del comunismo. Ma era un saper tutto che finiva con l’essere un saper nulla. Lì non sapevano nulla: ed era come se sapessero tutto.
Candido non nascose ai compagni di Torino la storia della sua espulsione dal partito, la raccontò minuziosamente. Quelli che la sentirono fecero il commento che laggiù, in Sicilia, poteva accadere di tutto, e accadeva; e anche, purtroppo, nel Partito Comunista. Dissero che, col tempo e, si capisce, col consenso di quelli che lo avevano espulso, lo avrebbero riammesso. Ma, col tempo, cominciarono invece a diffidare di lui.
Tutto cominciò una sera che si discorreva del pericolo in Italia di un colpo di stato. Ci credevano tutti e nessuno, tranne Candido, avanzava il dubbio che non riuscisse. Qualcuno disse che bisognava tenersi pronti a lasciare l’Italia; e quasi tutti si dichiararono d’accordo. Candido domandò: «E dove andreste?». I più risposero che sarebbero andati in Francia; altri in Canada e in Australia. Candido domandò, e lo domandò anche a se stesso, poiché anche lui aveva pensato, come i più, alla Francia: «E com’è che nessuno di noi vuole andare nell’Unione Sovietica?». Alcuni lo guardarono torvamente, altri mugugnarono. «È o non è un paese socialista?» incalzò Candido. Quasi in coro gli risposero: «Ma si capisce, ma certo… È un paese socialista: come no?». «Ma allora» disse Candido «dovremmo volerci andare: se siamo socialisti». Si fece un gelido silenzio; poi, come se fosse più tardi del solito, e invece era più del solito presto, tutti si alzarono e se ne andarono. Qualche giorno dopo, da un compagno più degli altri caritatevole, Candido seppe che i compagni lo consideravano ormai, per le battute di quella sera, un provocatore. E più, poi, tentava di spiegare, di chiarire, più quelli si chiudevano nella diffidenza e pungevano. Candido ne era amareggiato e travagliato. Finché una sera, tornando da una di quelle riunioni, Francesca disse: «E se fossero soltanto degli imbecilli?». E fu il principio della liberazione, della guarigione.
Intanto, Torino diventava una città sempre più cupa. Era come confusamente sdoppiata, come liquidamente divisa: due città che reciprocamente si assediavano, nevroticamente, senza che di ciascuna si riconoscessero le posizioni, le difese, gli avamposti, i cavalli di Frisia e di Troia. Il nord e il sud d’Italia vi si agitavano, pazzamente cercavano di evitarsi e al tempo stesso di colpirsi: entrambi imbottigliati a produrre automobili, un necessario a tutti superfluo, un superfluo a tutti necessario. Propriamente imbottigliati: e Candido applicava alla città l’immagine dei due scorpioni nella bottiglia in cui un famoso giornalista americano aveva sintetizzato la situazione delle due potenze atomiche, l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti d’America. Anche il nord e il sud d’Italia erano come due scorpioni nella bottiglia: nella bottiglia che era Torino.
Ne scriveva a don Antonio, di quel che era Torino. E don Antonio rispondeva che sì, certo, era una situazione terribile: ma se l’erano voluta, i piemontesi; ed era giusto pagassero. Ma paghiamo anche noi meridionali, ribatteva Candido. Sì, ma ad un certo punto romperemo la bottiglia: rispondeva don Antonio. Era diventato un po’ gauchiste, un po’ maoista, un po’ maggio francese. Ma sempre dentro il Partito Comunista. Scavalcarlo a sinistra, diceva, è pura, infinita, circolare follia: ci si ritrova a destra senza accorgersene. Ma, domandava Candido, non è come star dentro un’altra bottiglia? Sì, rispondeva don Antonio, ma non da scorpioni.


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