Marguerite et Julien
1) La loi du marché (La legge del mercato) di Stéphane Brizé. Concorso.
A 51 ani Thierry perde il lavoro. Dovrà farsi tutta la via crucis dei curricula, dei corsi di formazione, delle domande respinte, dei colloqui con gli algidi funzionari delle risorse umane. E ci sono moglie e figlio disabile a carico, il mutuo da pagare. Poi salta fuori un posto di vigilante in uno shopping center, e Thierry passa dall’altra parte, è lui a farsi custode della loi du marché. Amarissima parabola si potrebbe dire brechtiana sul lavoro e la perdita del lavoro oggi, in questa Europa. Secondo gli immarcescibili modi del cinéma-vérité. Un film onesto e assai meno militante di come il titolo minaccia. Grandissimo Vincent Lindon, in corsa per il premio come migliore attore. Voto 7 e mezzo
2) Rak Ti Khon Kaen (Cemetery of Splendour) di Apichatpong Weerasethakul. Un certain regard.
Davano Apichatpong alla stessa ora, alle 11, del nuovo Pixar movie Inside out: ho scelto Apichatpong, il thailandese la cui Palma d’oro per Uncle Boomie ancora fa discutere dopo anni e anni. Quando è salito sul palco della Salle Debussy, chiamato da Thierry Frémaux a introdurre questo suo nuovo film, la platea è esplosa in un’ovazion, lo stesso a fine proiezione. A dimostrazione che il nostro conta su uno zoccolo durissimo di cultori, alla faccia dei tanti che lo disprezzano. Diplomaticissimo (come aveva anche dimostrato a Locarno tre anni fa da presidente della giuria), ha ringraziato tutti, dichiarandosi felice e onorato di essere a Un certain regard, e dunque tacitando indirettamente chi accusava il festival di non averlo messo in concorso e regato nela sezione B. Due ore e cinque minuti di un flm assolutamente suo, che non potrebbe ch essere suo. Thailandia. Foresta profonda. Una piccola città. Soldati (ci sono quasi sempre soldati nei suoi film: la divisa come feticcio, anche erotico). In un piccolo ospedale giacciono dei giovani militari in stato di sonno perenne, sonno indotto da farmaci o da coma. Intorno medici e infermiere. E volontarie, tra cui una signora affetta da zoppia (il dettaglio avrà poi la sua rilevanza), più una medium che fa da tramite tra i soldati dormienti e i loro familiari. Consideratela pure una banalità, ma per AW la vita è sonno e sogno, lettralmente. Il film è questa fluttuazione tra la veglia e quanto ci sta sotto, tra la realtà visibile e quella nascosta, tra l’aldiqua e l’al di là. Due bellissime ragazze si rivelano essere due principesse laotiane morte tornate sulla terra (i revenants vanno molto a questo Cannes). La medium descrive la bellezza di un palazzo che solo lei percepisce. Nel sottosuolo dell’ospedale c’è un cimitero in cui si agitano i fantasmi di re del passato: i quali, per continuare le loro guerra, succhiano le energie dei soldatini addormentati. Il mondo e i suoi mondi paralleli, come sempre in Apichatpong, come in Uncle Boomie. Con sequenze visivamente formidabili, i notturni nello stanzone d’ospedale con le luci cangianti ad esempio sono di una bellezza che tglie il fiato. Il magico orientale diffuso e come dimnsione del quotidiano. Non mancano, come spesso nel regista thai, gli intermezzi pop, una signora delle televendite che si palesa a piazzare la sua maschera miracolsoa al caucciù, numeri di ballo da povero musical, canzoni e canzonacce. Più un erotismo palpabile. AW da quei corpi di ragazzi nel sonno cava una macchina di desideri e di sesso, con tanto di erezione totemica sotto un lenzuolo blu. Fnché resta nell’ospedale il film è semplicemente meravigioso, ma quando esce open air si perde in sequenze tortuose e enigmatiche. Con una delle scene più disturbanti viste ultimamente al cinema, e qui a Cannes: la giovane medium che scopre la gamba malata della volontaria e la lecca e la bacia. Pensate quello che volete, ma Apichatpong è un maestro vero. Voto 8 e mezzo
3) Amnesia di Barbet Schroeder. Proiezioni speciali.
Amo molto Barber Schroeder, uomo che viene dal lontano, dalla Nouvelle Vague di cui fu produttore più che esponente. Poi una carriera regitica da perfetto irregolare, tra Europa e America. Ho adorato il suo La vergine dei sicari, e aspettavo con ansia questo Amnesia, il suo ritorno a Ibiza dove aveva girato il film che lo aveva reso famoso a fine anni Sessanta, More. Allora: Amnesia è un brutto film che ne contiene un altro formidabile. Per due terzi mi ha folgorato, poi nell’ultima parte si disintegra nel kitsch, si autosabota, si autodistrugge. Fine anni Ottanta. Una misteriosa sigbora vive sola a Ibiza: è tedesca, ma per un qualche motivo non vuole farlo sapere, non vuole parlare nella sua lingua, non vuole nemmeno usare una Volkswagen. Perché? Quando arriva come nuovo vicino un bravo ragazzo berlinese che vuole sfondare come dj nei club dell’isola (e ce la farà, diventando la star dell’Amnesia), si mette in moto una catena di reazioni e controreazioni che porterà a galla il rimosso. Il ragazzo si lega a lei, Martha (che è Marthe Keller, attrice culto degli anni Settanta, ancora bellissima), e sarà lui a indurla a scoprirsi. Fidanzata a un violoncellista ebreo, Martha se l’è vsto portare via dai nazisti, e da allora ha rimosso dalla sua vita il proprio paese. Quando arrivano in visita la madre e il nonno del ragazzo, sarà psicodramma, e tutti i fantasmi nazionali (e nazional-socialisti) usciranno fuori. Signori, questa parte è straordinaria, il più lucido e insieme compassionevole film che si sia visto sui tedeschi e il loro complicato rapporto con il passato, la necessità di ricordare e anche quella di dimenticare per andare avanti. Un kammerspiel emozionante e bruciante, e lo scontro tra Marthe Keller e Bruno Ganz (il nonno) non lo si dimentica. Purtroppo Barbet Schroeder non ci risparmia il kitsch di Martha che balla, sembra flirtare col ragazzo, e le utime scene all’Amnesia sono imbarazzanti, per non parlare del termendissimo tramonto finale. Peccato. Fotografia smagliante di Luciano Tovoli, un grande del cinema italiano anni Settanta. Voto oscillante tra il 3 e il 9, dipende dai momenti.
4) Marguerite et Julien di Valérie Donzelli. Concorso.
Piaccia o meno, il film evento della giornata (Inside Out a parte). Uno dei film francesi, e di donne registe, fortissimamente voluti da Thierry Frémaux. Donzelli, il cui La guerra è dichiarata è diventato un piccolo classico, e un culto soprattutto femminile, qui mira altissimo, riscrivendo una sceneggiatura di Jean Gruault destinata a Truffaut ma mai realizzata. E ricostruendo con ampi margini di libertà un incestuoso amore tra fratello e sorella, Marguerite e Julien de Ravelet, che scandalizzò la Francia tra tardo Cinquecento e primo Seicento e finì con la condanna a morte della coppia. Devo dire che Donzelli ci mette l’anima in questo film, mostra di avere un’idea di cinema e una visione, tenta la messinscena grandiosa e spettacolare, e mai banale, fregandosene di ogni minimalismo. Massino rispetto per il suo coraggio. Però strafà, deborda, mette insieme un pastiche spesso indigesto mescolando registri diversi e generi diversi. L’idea, buona, è quella di non ricostruire cronachisticamente il caso, o di adottare le convezioni del period movie. Donzelli adotta inscrive la sua storia nel fiabesco e nel mitologico, ma poi sbanda e va sul melodramma, sui feuilleton ottocentesco, sul romanzo popolare, sul racconto orale. Di tutto. Aggiungete che, per sottolinare come l’incesto sia un tabù rimasto tale per secoli e millenni, condannato ieri come oggi, ambienta la vicenda in un tempo oltre la storia che mescola il Cinquecento dell’inquisizione ai processi mediatici di oggi (con tanto di microfoni nella corte e uso di elicotteri nella cattura dei due colpevoli), passando per il Sette e Ottocento. Da perderci la testa. Però, come in Barbet Schroeder, questo è un film sballato che ne contiene un altro molto riuscito. Sono i venticinque minuti-mezz’ora in cui Donzelli, per merito anche della grazia dei suoi due interpreti, Anaïs Demouster e Jerémy Elkaïm, sembra rifarsi a certi amori stilizzati e nobili, da fregio araldico, raccontati da Rohmer (Gli amori di Astrea e Celadon), Bresson (Lancillotto e Ginevra), con perfino un che di Kubrick, De Oliveira, Charles Laughton (La morte corre sul fiume). Insomma, incredibilmente si sfiora il sublime e poi ci si schianta al suolo del cattivo gusto e del sentimentalismo sciampistico. La prima parte dell’infanzia al castello è tremenda, lo stesso il coro delle bambine. Anche qui: peccato. Voto tra il 5 e il 6
5) Le Tout Nouveau Testament (The Brand New Testament) di Jaco Van Dormael. Quinzaine des Réalisateurs.
Quei mattocchi dei belgi. Il surrealismo dei vari Magritte e Delvaux continua rigolgioso al cinema, con registi come Jaco Van Dormael. Il quale con questo Le Tout Nouveau Testament si clloca sulla scia dei Monty Python, con parecchie baroccaggini alla Terry Gilliam e Iean Pierre Jeunet. Non proprio il mio cinema, ecco. Come dice il pressbook: Dio abita a Bruxelles, vive con una moglie che maltratta e una figlia di nome Ea che prende a cinghiate (il figlio Gesù Cristo è presente in famiglia solo come statuitna di gesso). Insomma, è un pessimo soggetto (lo interreta Benoît Poelvoorde) che se ne sta chiuso nel suo ufficio a determinare con il computer fortune e disgrazie del mondo e degli umani. Succede che Ea penetra nell’uffico, sabota il computer, inviando a tutti gli umani sul loro telefonino la data della loro morte decisa dal papà Dio. Poi scappa di casa, si ritrova per le strade di Bruxelles, diventa amica di un homeless, si mette in cerca di sei nuovi apostoli per scrivere con loo il nuovo Nuovo Testamento. Ci si diverte molto, alcune idee sono geniali, anzi Van Dormael ne spara a raffica, inesauribile. Però ahinoi accanto alla vena derisoria e satirica trapela anche quella del patetico, di un surrealismo purtroppo magico e poetico (il finale, per esempio). C’è anche Catherine Denuve che tradisce il marito stronzo con un gorilla. Signori, di questo è capace Madame Deneuve. Ma ci pensate a un altro mito del cinema così coraggioso da fare l’amore con uno scimmione? Voto tra il 6 e il 7