Saul Fia (Il figlio di Saul)
Mad Max – Fury Road di George Miller. Fuori concorso.
Applausi fragorosissimi per quella che si è rivelato un’opera visionaia assai autoriale e personale, più che un blockbuster furbetto confezionate secondo le regole del marketing . George Miller dopo i tre Mad Max suoi degi anni Ottanta rebootizza il personaggio e se stesso, rifonda e ricomincia la saga, sempre affondata in un futuro post-apoalittico dove alla penuria di energia si aggiunge, modernamente, quella d’acqua. Uomini-mostro si combattono per la sopravvivenza nella solita landa desolata e desrtica. Imagerie heavy-punk e anche steam-punk, molto diversa da quella dei supereroistici attuali cui deve contendere il box office (ce la fara?, ho qualche dubbio). Tom Hardy eccellente come al solito, ma sottoutilizzato. I film se lo prende tutto Charlize Theron. Bellissima anche rapata, guercia e con un braccio protesi. Grandioso il combattimento con gli uomini-antenna che oscillano e si abbassano a colpire e uccidere. Voto 7 e mezzo
AN di Naomi Kawase. Un certain regard.
Sarà downgrading? L’anno scorso la regista giapponese Nomi Kawase, assai amata dai cinefili d’alta gamma, era in concorso (con un film insopportabile), due anni fa era addirittura in giuria, quest’anno porta ‘solo’ un film, uesto AN, a Un certain regard (e però le han concesso l’onore dell’inaugurazione). Se non ce l’ho fatta ad amare AN – il cinema di Kawase non è il mio cinema – devo dire un prodotto che funziona bene e potrebbe decollare da questo Cannes verso un ottimo successo worldwide. Si piange come fontane, in una storia che, in puro Kawase style, mescola racciati esistenziali difficili e sofferenti a una presenza incombente,e avvolgente e pure ingombrante della natura. In una visione che a noi sembra new age, ma che probabilmente ha una qualche radici nella tradizione dello shintoismo nipponico. Ciliegi in fiore in indescrivibile quantità, rasentando il porno botanico. Una storia che solo a Kawase poteva venire in mente, quella di una vecchina bravissima nel preparar l’AN, la confettura dolce di fagili rossi, e però malata di lebbra, una degli ultimi lebbrosi del Giappone, cui solo nel 1996 è stato permesso di lasciare i ghetti in cui erano stati confinati. Il film parte come uno dei tanti food-movie oggi imperanti, solo più tardi scopriamo che quella compita e vecchia signora tanto brava in cucina si porta addosso quello stigma sociale. Edificante ma non melenso, anche se Kawase ci dà dentro con i buoni sentimenti e i ciliegi in fiori. Nel caso vi capitasse, preparate una consistente scorta di kleenex. Voto 6+
Hayored ema’ala (L’esprit de l’escalier) di Elad Keidan. Proiezione speciale. Piccolo, bizzaro film israeliano ultraindipendente, di quelli che di solito non si vedono a Cannes ma piuttosto a Berlino, Locarno, Rotterdam. Sospeso tra la bufala e il manifestarsi, l’erompere di un autore giovane che potrebbe diventare qualcuno. Cinema fatto di niente, di incontri e di conversazioni alla Hong Sang-soo, con qualche reminiscenza di Rohmer, ma senza la loro leggerezza. Si salgono e si scendono le scale del Monte Carmelo, nella città di Haifa, porto d’Israele, e di Israele forse la più bella città (a parte Gerusalemme, ovvio). Moshe è un uomo maturo e assai provato dal vita che si mette alla ricerca dell’orecchino perso dala moglie. Farà un’amarissima scoperta, mentre di lui apprenderemo il complicato passato. In parallelo seguiamo il più giovane Gavi, riservista di Tssahal che vuol schivare una convocazione per un’esercitazione. In realtà sta per imbarcarsi su una petroliera e lasciare Israele. Le traiettorie dei due si incroceranno, per poi separarsi. Cinema del caso e della necessità. Spiazzante, soprattutto a Cannes. Moshe a suo amico arabo (palestinese ma cittadino israeliano) confida la voglia di mettere su un museo dedicato alla Nakba, l’esodo palestinese da Israele: “Se lo faccio io che sono un ebreo nessuno me lo impedirà”. Voto 6 e mezzo
Umimachi Diari (Our Little Sister) di Kore-eda Hirozaki. In concorso. Finalmente recuperato oggi alla Sale Lumière il film giapponese del concorso perso ieri due volte alla Salle Bazin. Troppo lungo (due ore e passa, e almeno mezz’ora è di troppo), con un inizio noiosissimo. Poi però piano piano questa cronaca familiare di tre giovani sorelle, che accolgono in casa una sorella più giovane avuta dal padre con un’altra donna, prende quota, e si finisce con il voler bene a questo clan tutto femminile. Di Kore-da piacciono la pulizia nell’uso dell mdp, la trasparenza, il nitore, il pudore e il rispetto con cui entra nela vita dei suoi personaggi. Succede nente e succede di tutto: come nel cinema di Richard Linklater, succede la vita. Molto amato dal pubblico. Potrebbe vincere qualcosa. Voto 6 e mezzo
Saul Fia (Il figlio di Saul) di Lászlóó Nemes. In concorso.
Il film del giorno, e forse di questo Cannes. Oggi tutti in fremente attesa del capolavoro annunciato. Del film per cui anche Thierry Frémaux aveva speso parole inusuali di elogio nella conf. stampa di presentazione del programma. Opera prima – l’unica del concorso – di un cineasta ungherese allievo di Bela Tarr, che è una credenziale di peso, altroché. Un film sulla Shoah, una storia insostenibile. Che non può non porci di fronte all’eterna questione: ma è possibile rappresentare quell’orrore? non è che ogni rappresentazione è in un qualche misura un tradimento? ed è possibile mantenere di fronte a un film sulla Shoah un distacco critico? Bisognerò riparlare, di Il figlio di Saul, che sicuramente si prenderà più di un premio, e magari anche la Palma. Da dove partire per darne un’idea? Ecco, siamo in un campo di sterminio. L’ebreo ungherese Saul è un Sonderkommando, uno di quegli internati scelti per spogliare coloro che vengono condotti alla camera a gas, per ripulire le camere dopo ogni ‘operazione’, per bruciare i cadaveri nei forni, per spargere le ceneri nel fiume. Gente che dopo pochi mesi viene a sua volta uccisa. (Attenzione: esiste anche un libro dal titolo Sonderkommando Auschwitz scritto da Shlomo Venezia, un ebreo romano che ad Auschwitz è sopravvissuto). Un giorno tra i corpi tirati fuori dalla camera a gas c’è anche quello di un ragazzo, è il figlio di Saul. Che da quel momento ha solo un obiettivo in testa: dargli sepoltura degna, trovare un rabbino che reciti per lui il Kaddish. Antigone nei lager. Intanto nel campo è, letteralmente, l’inferno. Nemes ha un’idea forte e precisa di cinema, e la applica al suo racconto con coerenza assoluta. Macchina da presa sul volto del suo protagonista, e pronta a seguirlo nel suo affannarsi in quella bolgia demoniaca in lunghi piani-sequenza, a simulare il tempo reale. Intorno a Saul tutto, uomini e cose, è sfuocato, indistinto, e questo consente a Nemes di sfuggire almeno in parte al dilemma della non rappresentabilità dell’orrore. Capolavoro? Non saprei. In my opinion il film, straordinariamente girato e di inaudita potenza, soffre di qualche inverosimiglianza. Ma bisognerà pensarci ancora su, a Il figlio di Saul. Voto 7 e mezzo