Cannes 2015. Recensione: THE LOBSTER è il meglio del concorso finora

Creato il 15 maggio 2015 da Luigilocatelli

The Lobster, un film di Yorgos Lanthimos. Con Colin farrell, Rechel Weisz, Olivia Colman, Ashley Jensen, Ariane Labed, Léa Seydoux, John C. Reilly, Angeliki Papoulia, Ben Whishaw. In concorso.
Il fondatore del nuovo cinema greco porta a Cannes una parabola in forma di distopia sul totalitarismo e l’intolleranza. In una società dove i single son considerati fuorilegge, chi non sta in coppia viene recluso in un hotel dove ha qualche settimana di tempo per redimersi e trovarsi un partne stabile, altrimenti verrà trasformato in bestia. Tra Ovidio, Kafka, Tati e The Hunger Games.  Prima parte strepitosa, poi il film si ingarbuglia, ma resta il migliore dei primi quattro prsentati finora in concorso. Voto 8+
The Lobster era stato annunciato da Thierry Fréemaux alla conf. stampa parigina di prsentazione del pregramma come un film ostico, di difficile decifrazione, il più impevio di tutta la sélection, e però di quei film necessari come l’aria a un festival che voglia non solo consolidare il già conosciuto ma anche fare dell’esplorazione. E un regista come il greco Yorgos Lanthimos aveva, ha, tutte le credenziale per rientare nella fascia degli autori che oggi nel cinema cercano di dissodare nuovi terreni, lui che come padre fondatore della new wave greca ha dato due titoli tra i più disturbanti dell’ultima decade. Prima Dogtooth (Canino), vincitore qui a Cannes a Un certain regard e poi finito incredibilmente, vista la sua radicale alterità, nella cinquina all’Oscar del migliore film straniero, quindi quell’Alpis dato a Venezia in concorso tre anni e vincitore di un premio se ricordo bene alla senegiatura. Gente che ama spiazzare, anche puntando sul sordido e sul laido, quelli del cinema greco ultima generazione (e non ditemi che è un riflesso della crisi, questa new wave è nata prima del quasi-default e ha, oltre a abbondanti echi della locale tragedia classica, una perversa aria centroeuropea alla Haneke). E son film, quelli di Lanthimos, che indagano gli aspetti umani al margine della civilizzazione e delle buone regole che cementano la convivenza sociale. In Dogtooth un padre tiene reclusa la propria famiglia, in Alpis un’agenzia presta impersonator a gente colpita da un lutto che vuole riavere vicina la persona defunta interpretata da un attore (con tanto di sesso finto-coniugale e in realtà mercenario). Tutto messo in scena e ripreso con una impassibilità che per qualcuno è il voyeurismo malato. Come dice un mio amico che lo odia: Lanthimos è il Male, Lanthimos è l’Anticristo. Immagino per come sa estrarre il peggio dalla media umanità e sbattercelo in faccia non senza compiacimento. Per questo terzo film ha avuto evidentemente a posposizione un budget superiore al passato, ha girato in inglese, punta al mercato internazionale anche grazie a un cast di famosi: Colin Farrelle (irriconoscibile, in una parte che ricorda molto gli ultimi ruoli di Joaquin Phoenix), John C. Reilly, Ben Whishaw, Rachel Weisz, Léa Seydoux, più le fedelissimi al regista Ariane Labed e Angeliki Papoulia. Risultato notevolissimo, di sicuro The Lobster (L’aragosta) è il meglio dei quattro film del concorso visti fino a stamattina, anche del potente Saul Fia visto ieri sera. Purtroppo imperfetto e dunque non capolavoro, al solito troppo lungo (due ore, difettaccio ricorrente ormai in molti film autoriali, e anche a questo Cannes). Con una prima parte sorreta da un’idea bizzarra ma di fulminante precisione drammaturgica, con dialoghi acuminati e insieme alusivim obiqui, capaci di restituire lo sgradevole del banale quotidiano, con una messinscena surreal-grottesca ma di segno nitido e di kafkiana paradossalità, sospensione e stupore. The Lobster perde quota nella seconda parte, quando esce dall’abergo-lager di rieducazione e controllo e scopre la finta libertà dei boschi dove si annidano i ribelli. Che si riveleranno feroci tanto uanto i carnefici dell’hotel. La cristallina coerenza, la compattezza della prima ora si sfrangia, anche se il film grazie a Dio non implode. E nell’ultima parte si rialza fino alla grandissima scena finale. Però, pur con i suoi difeti, avercene signori miei. The Lobster ci mette di fronte a una delle tante distopie cinematografiche di questi anni, un futuro vicio in cui vediamo riflessi appena distorti i modi del nostro vivere, come se la nostra odierna normalità si fosse dissolta e scissa nelle forze oscure che la sorreggono e ne fosse portata alla deriva. Si tratta anche di un intelligente riuso da parte di Lanthimos e dei suoi sceneggiatori delle convenzioni del distopian movie per young adults genere The Hunger Games e surrogati vari. In una società che è domani ma quasi oggi, in una plumbea atmosfera da nord Europa o da Nord Europa insulare (Irlanda? Qualche parte di Scozia?) i single non sono ammessi, son considerati fuorilegge, perseguitati, sottoposti a programmi rieducativi. E non si può non pensare a quel pezzo di stroia italiana novecentesca detto fascismo in cui gli scapoli erano colpiti e disincentivati con una tassa speciale. Ecco, in The Lobster i singoli vengono reclusi in un albergo dotati di tutti i comfort dove hanno a disposizion un lasso di tempo perché si convertano alla vita di coppia e trovino un partner stabile, altrimenti verranno puniti con la trasformzione in animali (con però la possibilità di scelta, e quasi tutti dicono cani e gatti, mentre il protagonista è il solo a optare per l’aragosta). Per almeno tre quarti d’ora The Lobster si mantiene a livelli stratosferici per quantità di invenzioni e qualità della messinscena, in una commedia tragica che frulla Kafka, Chaplin, Tati, Keaton. Quelle feste nella sala da ballo dell’hotel, quelle scene per dimostrare ai treclusi come sia disgraziata la vita di un/una single e fortunata quella degli accoppiati. Punizioni e angherie verso chi non si adegua, o sgarra, o inganna gli occhiuti reggitori dell’hotel-lager. Ogni tanto si organizzano cacce ai singoli passati alla macchia per sfuggire alle retate, e ogni vittima ammazzata vale agli ospiti dell’abergo qualche giorno in più per trovarsi un compagno o una compagna e sfuggire alla metamorfosi in bestia. La forza del film sta nel farci entrare in questo clima alterato, malato, stralunato, in questo universo abnorme ma assolutamente coerente, e nel farcelo accttare e digerire come una normalità altra, come una realtà parallela. I toni son spesso quelli della commedia surreale, e il senso di Lanthimos per il sordido mostrato nei due film precedenti qui vien tenuto a freno o messo al servizio di paradossali piccoli quadri narrativi. Poi il protagonista ce la fa a scappare, finisce nel boco dove si aggirano i singoli irriducibili nemici degli accoppiatori, gli esaltati della singletudine, opposti e però speculari agli oppressori dell’hotel. Totalitari anche loro, che non tollerano che nessuno del gruppo si metta in coppia, e chi lo faviene punito con le peggio torture e mutilazioni. Leader di questo totalitarismo pro-single resistenza è una Léa Seydoux che nel suo fanatismo ricorda quelli dei peggiori regimi del secolo scorso. Il povero Colin Farrell naturalmente finirà con l’innamorarsi (di Rachel Weisz) e saranno guai. La meravigliosa linearità e trasparenza della prima parte lascia il posto a qualche confusione di troppo, ma la parabola c’è, ed è eloquente.


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