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Cannes e la sconfitta italiana: basta con il piagnisteo

Creato il 26 maggio 2015 da Luigilocatelli

Festival de Cannes 2011, du 11 au 22 mai 2011.Tutto come previsto. Dopo gli zero premi all’Italia a Cannes s’è scatenato su molta nostra stampa il miserere, il lamento funebre. Il vittimismo, la lagna, il piagnisteo. E l’odio contro lo straniero. Ma come, eravamo in corsa con tre-capolavori-tre, con il mejo del nostro cinebigoncio e ci hanno umiliato così? Maledetti francesi, che a se stessi hanno assegnato tre premi, a partire dal più importante, e imposto ai giurati il palmarès: ecco, è quanto si sta leggendo di qua e di là, purtroppo anche su media rispettabili che non dovrebbero rinfocolare le paranoie collettive e i complottismi. Invece è tutto un pianto, e un’invettiva contro il nemico al di là delle Alpi, i cugini-coltelli che avrebbero apparecchiato un verdetto a loro misura. In questo psicodramma nazional-tricolore c’è un altro tormentone oltre al dalli alla Francia: non facciamo sistema, siamo incapaci di fare lobbying (traduzione: di influenzare le giurie), non sosteniamo, non appoggiamo, non fiancheggiamo i nostri meravigliosi registi quando giocano fuori casa.
Finiamola. Un po’ di dignità per favore. Come si può pensare che gente come i Coen, con quel che hanno fatto, con la credibilità che si sono conquistati, abbiano stilato un palmarès sotto dettatura dei padroni di casa? È che non si ha la voglia né tantomeno il coraggio di ammettere che in concorso c’erano, semplicemente, film migliori di quelli di Sorrentino, Garrone e Moretti. Che i primi due non sono mai stati realmente in corsa e che semmai solo Mia madre aveva una qualche chance. Ed è incredibile come ancora una volta parecchi media italiani abbiano restituito di un festival un quadro distorto e irreale, ottusamente filonazionale, in cui si allucina di capolavori accolti da “15 minuti di applausi” e di “premi sicuri”. Ma quando mai? Chi al festival ci sta trasecola di fronte a simili cronache di successi inesistenti. Diciamole allora certe cose. Il racconto dei racconti di Matteo Garrone, oltretutto collocato infelicemente il primo giorno del concorso (sicché poi alla fine è facile dimenticarsene), non se lo sono filati in moltissimi, gli applausi alla proiezione stampa non sono stati travolgenti, le reviews internazionali pure, con l’importante eccezione di Peter Bradshaw del Guardian che gli ha dato cinque stelle. I francesi non l’hanno amato, e allora come si può pensare che potesse beccarsi un premio? Era chiaro già all’inizio di questo Cannes che sarebbe stato tagliato fuori. Sorrentino: dopo il press screening delle 8,30 (di mattina) al Grand Théatre Lumière non c’è stata l’ovazione attesa, applausi di cortesia e qualche timidissimo dissenso, e all’uscita molti i pareri perplessi per non dire negativi. Niente di paragonabile alla proiezione due anni fa a Cannes di La grande bellezza, quando la stampa internazionale applaudì per dieci minuti (c’ero, e ricordo molto bene). Le recensioni di area anglofona di Youth son state tra il discreto e il così così, qualche punta di caldo consenso, e stroncature feroci invece dai francesi. Tant’è che il sito di LesInrocks è arrivato a scrivere – certo esagerando – che Sorrentino è il peggior regista al mondo e non si capisce perché Cannes si ostini a mettere in concorso ogni suo film. Ovvio che entrare in area premi sarebbe stata dura. Buone recensioni invece se le è prese Moretti con Mia madre, e dunque era l’unico per il quale si potesse ragionevolmente sperare qualcosa. Questi i fatti. Leggete oggi sul Corriere della sera l’illuminante intervista alla giurata Rossy De Palma, l’unica che abbia svelato qualcosa del dietro le quinte del palmarès. Emerge parecchio di interessante, ad esempio che i nostri film non sono mai stati veramente presi in considerazione, che dal pur degno Moretti è venuta “una storia che poteva essere girata dieci anni fa”. In altre parole, un cinema bello e nobile ma inesorabilmente datato, mentre “l’orientamento era premiare un cinema che ci ha colpito per novità di linguaggio e per la messa in scena”. Più chiaro di così. Rossy De Palma ha ragione, la nostra terna in concorso a confronto di molti altri titoli è sembrata complessivamente stanca e passatista. The Lobster di Yorgos Lanthimos, Il figlio di Saul di Laszlo Nemes e Chronic di Michel Franco, tutti entrati a vario titolo nel palmarès, aprono finestre sul cinema che verrà, scrutano il nuovo e cercano di praticarlo. Premiarli è stato un atto di coraggio, altro che giuria venduta ai francesi. E fa niente se al messicano Chronic hanno dato abbastanza assurdamente il premio per la sceneggiatura, che è precisamente la cosa più lacunosa di un film il cui interesse sta altrove (nello sguardo freddo, nell’assenza di ogni sentimentalismo ruffiano): è stato un modo per trovargli un posto nel palmarès. Quanto alla Palma data a Audiard, il suo Dheepan era semplicemente il film migliore, il più risolto, il più compatto. E non così tradizionale come sembra perché, nel mescolare autorialità e genere, nell’enfasi sulla fisicità e la corporalità, nella sua avalutatività, il film di Audiard è in linea con parecchio cinema della contemporaneità. Quanto allo strapotere francese: certo hanno esagerato con cinque film in concorso (più La tȇte haute in apertura fuori concorso), ma la vittoria di Audiard non la si discute, e nemmeno il premio di migliore attore al meraviglioso Vincent Lindon di La loi du marché. Semmai c’è da ridire sull’ax aequo a Emmanuelle Bercot per la migliore interpretazione femminile per Mon Roi, ma resta l’unica nota stonata del verdetto. Piuttosto che lamentarci della nostra incapacità di influenzare le giurie, cerchiamo di produrre film migliori. Dai francesi c’è da imparare. Hanno uno dei cinema più forti al mondo insieme a quello americano, cinese e indiano. Rischiano su prodotti meno convenzionali e più innovativi dei nostri. Attraverso le partecipazioni produttive stanno espandendo vertiginosamente la loro sfera d’influenza. Sigle cone Le Pacte, Wild Bunch, Arté sono apparse nei credits produttivi di molte opere viste a Cannes, come il turco Mustang, vincitore di un premio alla Quinzaine. Questo, oggi, è il vero potere del cinema di Parigi, non quello di manipolare le giurie di Cannes come si ama pensare dalle nostre parti per non ammettere le ragioni della sconfitta.


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