Le stelle nascono all’interno di nubi in rotazione, ricche di gas e polveri interstellari. Quando la nube innesca una contrazione, a causa della propria forza di gravità, si può avere la formazione di nuove stelle. Prima di cadere sulla stella, gran parte della nube si distribuisce lungo un disco circumstellare e il modo in cui il materiale del disco viene trasportato verso la stella, causandone l’accrescimento di massa, è diventato un campo di ricerca estremamente attivo nell’astrofisica moderna.
Da tempo si è scoperto che le stelle non accumulano materia in maniera costante, ma attraverso una serie di episodi estremi che si manifestano con intensi bagliori di luce. La giovane stella FU Orionis, che fa parte della costellazione di Orione, è un esempio tipico di questo fenomeno, poiché tocca aumenti di luminosità fino a un fattore 250 nell’arco di un solo anno, con picchi di emissione intensa che possono durare anche un secolo.
Un possibile meccanismo che può spiegare questi eventi è stato proposto una decina di anni fa da Eduard Vorobyov, che lavora presso il Dipartimento di astrofisica dell’Università di Vienna, in collaborazione con Shantanu Basu dell’Università del Western Ontario, in Canada.
Secondo la loro teoria, l’aumento di luminosità sarebbe causato dall’instabilità gravitazionale dei dischi che circondano le stelle giovani, e dalla conseguente migrazione di “grumi” di materia verso la superficie della stella. Proprio come accade quando si getta un ciocco di legno nel camino, questi episodi di consumo repentino e massiccio comportano un rilascio di energia in eccesso che può portare la stella ad aumentare la propria luminosità da qualche centinaio a qualche migliaio di volte. Nel corso di uno di questi eventi, la stella arriva a consumare l’equivalente di una massa terrestre ogni dieci giorni. La frequenza con cui si verificano questi lampi luminosi è pari a una volta ogni diverse migliaia di anni.
Eduard Vorobyov descrive il processo di formazione dei grumi di materia nei dischi circumstellari e della loro progressiva migrazione verso la stella come “cannibalismo su scale astronomiche”. Quei grumi potrebbero diventare pianeti giganti come Giove, e invece vengono inghiottiti dalla loro stella madre.
Le immagini raccolte dal telescopio da 8.2 metri Subaru per i quattro oggetti selezionati. Le asimmetrie significative, tipiche dei dischi gravitazionalmente instabili, sono indicate da frecce. Crediti: Eduard Vorobyov, Università di Vienna
Con l’avvento di strumenti tecnologicamente avanzati, come il telescopio ottico-infrarosso Subaru da 8.2 metri a Mauna Kea, è ora possibile testare le previsioni del modello di Vorobyov e Basu. Effettuando osservazioni ad alta risoluzione, grazie alla tecnica dell’ottica adattiva, un team internazionale di astronomi guidato da Hauyu Liu dello European Space Observatory di Garching ha verificato la presenza di alcune caratteristiche associate al modello di frammentazione del disco: archi di materiale su larga scala che circondano quattro stelle giovani in piena fase di luminosità intensa, tra cui anche la stella FU Orionis. I risultati sono stati pubblicati il 5 febbraio scorso su Science Advance, la rivista peer-review ad accesso gratuito appartenente al gruppo editoriale di Science.
«Questo è un passo molto importante verso una migliore comprensione dei processi di formazione ed evoluzione di stelle e pianeti», spiega Vorobyov. «Se siamo in grado di dimostrare che la maggior parte delle stelle sperimenta questi episodi di luminosità intensa, causata da un’instabilità gravitazionale del disco, potrebbe voler dire che anche il nostro Sole ha attraversato fasi simili in passato. I pianeti giganti che vediamo popolare il Sistema solare potrebbero quindi essere i fortunati sopravvissuti di un burrascoso passato».
Per saperne di più, si invita alla lettura dell’articolo:
- “Circumstellar Disks of the Most Vigorously Accreting Young Stars” di Hauyu Baobab Liu, Michihiro Takami, Tomoyuki Kudo, Jun Hashimoto, Ruobing Dong, Eduard I. Vorobyov, Tae-Soo Pyo, Misato Fukagawa, Motohide Tamura, Thomas Henning, Michael M. Dunham, Jennifer Karr, Nobuhiko Kusakabe e Toru Tsuribe
Fonte: Media INAF | Scritto da Elisa Nichelli