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CANTICO DI BORGATA - di Gianfranco Vergoni

Creato il 04 luglio 2012 da Ilibri
CANTICO DI BORGATA - di Gianfranco Vergoni CANTICO DI BORGATA - di Gianfranco Vergoni

TitoloCantico di borgataAutoreGianfranco VergoniEditoreIoScrittore

Dario ed Enrico sono due giovani romani, l’uno sogna di diventare famoso grazie alla musica, l’altro lo segue mentre sbarca il lunario come meccanico, ogni tanto arrotondano cantando nell’osteria der Sor Guerino. Due tipici trentenni che si lasciano trasportare dalla vita, incapaci di reagire e di realizzarsi, imprigionati da quella borgata che li ha visti crescere. Sarà l’incontro con il bieco Capodajo, torbido manager, più calzante è il romano “ricottaro”, e la sua avvenente segretaria Gabriella, a dare una svolta al corso delle loro monotone vite. Solo attraverso una tragedia catartica, i due amici sapranno ritrovare se stessi e si faranno strada nel mondo riscoprendo l’importanza delle cose semplici e dell’amore.

La narrazione procede attraverso i pensieri dei singoli personaggi, che di capitolo in capitolo prendono la scena e raccontano il dispiegarsi degli eventi. La dimensione è esclusivamente introspettiva e l’assenza di dialoghi lascia intendere una solitudine di fondo, insuperabile. Tutto è visto con un certo distacco, non c’è più differenza tra narratore e personaggi, tanto che questi ultimi ne rivestono a turno il ruolo. A ciascuno è poi garantito il suo spazio di celebrità, così c’è almeno un capitolo per ognuno, Vergoni ci lascia assaggiare almeno un pizzico della psiche di ogni attore ed è solo la quantità di capitoli a dare il peso del suo contributo alla narrazione, non il modo in cui è affrontato e raccontato il personaggio.  

A farla da padrone non è tanto la città di Roma nella sua spazialità, nei suoi luoghi; quanto il suo ethos, quell’attitudine irriverente e ironica che è nel senso comune spesso attribuita ai romani. Ethos che è rappresentato da Enrico e da Dario, due facce della stessa medaglia, buono e taciturno, ingenuo e laboriosol’uno; iperattivo e sarcastico, sfaticato e inconcludente, ma altrettanto buono e credulonel’altro. Quasi a dire che i romani sono degli scansafatiche, ma non sono cattivi. Una sorta di Rugantino bifronte, privo della mano “sverta cor cortello”.

Vergoni traccia un “Pasticciaccio brutto ai tempi di Maria De Filippi”, un ritratto delle aspirazioni frustrate di chi nasce in borgata e vuole fuggire, passare a frequentare i “pariolini”, i quartieri bene di Roma Nord, emergere, diventare famoso e non capisce che la felicità si trova invece proprio in quella borgata che gli ha dato i natali, in quelle cose semplici che rendono la vita meravigliosa, nella bontà di un gesto delicato come una carezza. La prosa è ricca di metafore, similitudini, barocchismi di ogni genere, ha un tono che si confà al talk show televisivo e ben si adatta a descrivere i pensieri di questi “borgatari”. Vergoni, già autore teatrale, trasforma in romanzo una sua commedia musicale “Sotto il cielo di Roma – Trasteverini”, traccia una storia che si snoda da un muro dell’Anagnina e affronta con ironia e leggerezza il malessere contemporaneo, che parla di buoni sentimenti, verrebbe da dire cattolica visto il “cantico” del titolo, ma priva di quel perbenismo che spesso affligge il sentimento religioso.

Domande all'autore

vergoni
Ciao Gianfranco, questa non è la tua prima esperienza con la scrittura, perché hai voluto ridurre in forma di romanzo una tua commedia teatrale e perché hai voluto partecipare a questo concorso?

Dopo le repliche di SOTTO IL CIELO DI ROMA (TRASTEVERINI) presso il teatro della Cometa, a Roma,  avevo pensato che nell’ipotesi di una ripresa sarebbe stato utile per gli attori praticare delle scene supplementari, per approfondire i personaggi. Così ho iniziato a scrivere dei dialoghi in più, corrispondenti a quello che avveniva nella storia ma che non veniva rappresentato sulla scena... e i personaggi avevano così tanto da dire, che mi sono ritrovato in mano un romanzo. Ho partecipato a IoScrittore dopo aver spedito il manoscritto a una ventina di editori senza alcun risultato, e mi sembrava una buona occasione, se non altro per farlo leggere a qualcuno, e avere dei riscontri. Va detto che il romanzo inizialmente era molto difficile da leggere: scritto in romanesco, sgrammaticato, casuale, irto di tronche, apostrofi e accenti, con paragrafi lunghissimi, migliaia di virgole, a imitazione di un flusso di coscienza continuo. Infatti fu eliminato subito con voti bassissimi e commenti orrendi. L’anno dopo ho riscritto tutto in italiano, lasciandolo solo un po’ “sporco”, e ho incivilito la punteggiatura.

Cosa ti ha affascinato di più di Roma e cosa ti ha spinto veramente a farla protagonista delle tue opere?

Io vivo a Roma, la abito, la respiro, mi ci sveglio avvolto, la sua lingua è diventata la mia, la amo e la detesto come una sorella sciatta e rumorosa che sciupa la bellezza della sua gioventù.

Non credi che quelli rappresentati siano dei romani un po’ troppo stereotipati, più simili ad una maschera che ai veri abitanti della città?

Quando ci si muove nell’ambito della commedia, il rischio è sempre in agguato. Posso solo dire che alcuni dei personaggi sono totalmente ricalcati su persone esistenti. Va detto che il modo di pensare e di parlare di molti romani, strafottente, sempre pronto allo sberleffo e alla caciarata, non appena lo racconti, diventa subito stereotipo. Ma non è colpa di chi lo racconta! Io quando giro in metropolitana prendo sempre appunti: dai gruppi di ragazze che si muovono in gruppo verso il centro il sabato pomeriggio ho rubato una serie incredibile di spunti, che per quanto forzati possano sembrare, sono veri.

C’è qualcuno degli autori che hanno trattato Roma che pensi possa averti influenzato?

Io spero di essere influenzato il più possibile dallo straordinario lavoro drammaturgico di Gianni Clementi, di cui non perdo una commedia. Ma per la stesura del romanzo, tutta a monologhi, i miei riferimenti sono stati altri, e per pudore rinuncio a citarli.

Nel tuo romanzo l’amore vince su tutto, ma questa vittoria si raggiunge senza una critica vera e propria, piuttosto le cose vanno a posto quasi per magia, come mai questa concezione così fideistica per parlare di una borgata e dei suoi abitanti?

Esagerato! L’amore non vince per definizione, ma perché si accetta l’altro con i suoi limiti, le sue zone oscure, le sue debolezze, il suo passato, e all’altro ci si consegna senza mistificazione, faticando fianco a fianco. E le cose vanno a posto dopo che ci si rimbocca le maniche, si rinuncia alle velleità e alle scorciatoie, si fa pulizia, si ammettono gli sbagli, ci si dedica a un lavoro umile e pesante.  Però lo ammetto: volevo un finale di speranza e consolazione. Un lieto fine, come è d’obbligo appunto nelle commedie musicali. Tra l’altro sono single da sei anni… lasciatemi almeno sognare..! E non sono d’accordo sull’idea che tutto ciò che proviene dalla borgata debba necessariamente essere infetto, degradato, triste. Non è così. C’è anche vita, spontaneità, allegria.

 

 

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