Dal fondo del letto mi osservava, trucido, o forse stolido. Nella penombra non riuscivo a distinguere altro, se non la stazza porcina, che occupava quasi tutta la mia visuale.
E stranamente, pur essendo appena stata svegliata da uno sconosciuto nella mia casa, che ora se ne stava a fissarmi dal fondo del letto, non ero spaventata. Non lo avevo sentito entrare, era solo apparso.
Mi alzai a sedere, allungai la mano verso la luce. Non fece nemmeno finta di battere le palpebre, porcine anch’esse, contro il nuovo riflesso. “Sono il fantasma del Lavoro Passato”, ripetè, con voce bolsa.
Ecco cosa mi aveva svegliato: quella voce, quelle parole. Quel meccanico ripetere “Sono il fantasma del Lavoro Passato” quasi ossessivamente, come se si aspettasse che lo riconoscessi.
L’unico fantasma che conoscevo era il Fantasma Formaggino, e quello non lo incontravo dalla 5 elementare. Ricambiai il suo sguardo un po’ ebete, senza capire. Ma mi tranquillizzai: non poteva che essere un sogno.
Uno sogno stronzo, ma pur sempre un sogno.
Lo stupido fantasma Palla di Lardo (come decisi che l’avrei chiamato, anche se non ad alta voce), si ripetè un altro paio di volte. Sempre con lo stesso tono. Sempre con le stesse parole. Finchè non mi decisi a sospirare e gli chiesi cosa voleva.
Come se i suoi recettori fossero stati messi in funzione dalla risposta corretta, allungò una mano e indicò me. Feci solo in tempo a pensare “beeene”… che la luce intorno a me cambiò e io mi ritrovai.. no, non per una selva oscura, ma nei miei vecchi uffici. Quelli che non visitavo da più di due anni. Quelli dove avevo lavorato per 8, prima di essere cacciata fuori a calci in culo. Quelli dove nemmeno più dimorava, quella maledetta azienda che aveva traslocato subito dopo avermi dato il benservito.
Quelli in cui ferveva la solita attività degli anni “d’oro” e nel bel mezzo dei quali io mi trovavo nel mio bel pigiama a gattini.
Da due anni a questa parte sognavo spesso di tornare fra quelle mura, fra quella gente, ma il sogno non era mai stato così vivido. E poi, notai subito la differenza rispetto al solito, perché quella gente – così indaffarata a sembrare “vincente” e “indaffarata” (si, le ricordavo bene le signorine e i megamanager che combattevano a colpi di email auto celebrative dei successi aziendali ottenuti, tutte scritte per nascondere il latente fancazzismo che avrebbe portato la società alla deriva)- quella gente non faceva nemmeno caso a me che mi aggiravo fra loro. Mentre nei miei sogni non perdevano occasione per ridermi in faccia, sfottermi, scacciarmi.
Dietro di me, il fantasma continuava a ripetere il suo disco rotto. In effetti, ora che ci pensavo, mi ricordava certa di quella gente, soprattutto i capi: così calati nei loro panni di capi da ripetere sempre le stesse manfrine (che sapevo
a memoria), infarcite dei paroloni tipici dei discorsi aziendali (sinergia, fare network, ottimizzazione, brandizzazione, ROI …paroloni così, che nessuno sa cosa significhino, o quasi). Sempre gli stessi gesti, sempre le stesse dinamiche da ufficio, le piccole e grandi battaglie fra poveri che gli impiegati ingaggiavano nella vana speranza di diventare i “protegè” del capo e scampare la mala sorte, mai uno sprizzo di creatività, mai (dio ce ne scampasse) un po’ di rischio. Sempre la colpa agli altri.
Fino a che gli altri, cioè io, non sono stati eliminati. Chissà con chi se la stavano prendendo ora, mi chiesi, ora che non c’ero più io a litigare col capo senza nemmeno nascondergli la bassa opinione che avevo di lui e dei suoi leccapiedi (eccomi lì, ad osservarmi, proprio fare quello, come se i pensieri della mia mente si fossero per un attimo cristallizzati in una diapositiva così nitida da ricordarmi persino l’odore del caffè della schifida macchinetta in fondo al corridoio).
Conclusi che probabilmente si stavano scannando fra loro, come i sopravvissuti al disastro aereo delle Ande. Ne sarebbe rimasto solo uno, quello che aveva il potere di licenziare tutti gli altri, prima che toccasse a lui.
Mi girai verso il fantasma, che non aveva risposte da offrire alle mie domande. Lui conosceva perfettamente quello che ci si aspettava da lui: continuare nei suoi gesti ripetitivi fino ad assolvere il suo compito. Perfetto prototipo dell’impiegato vincente (e non aveva forse, pensandoci bene, le sembianze di quel gran leccapiedi …? Si, era proprio lui).
Dio, pensai d’un tratto, come NON mi mancava quel posto e quella gente, tutta fatta con lo stesso stampo, tutta falsa!
Il fantasma si voltò verso di me shockato, come se mi avesse sentita parlare ad alta voce, e contemporaneamente non capisse come potevo sputare su tanto ben di dio: dei favolosi uffici, un team vincente di vipere pronte ad azzannarti. L’avevo lasciato senza parole. Livido di …rabbia? Delusione.
Non lo capii mai: in un battito di ciglia era scomparso e io mi ritrovavo in un freddo atrio, che sembrava come di tribunale, in cima ad una fila lunghissima di derelitti che si snodava dietro a me. Davanti a me, su una scrivania più lunga che larga, un tizio calvo, emaciato, arcigno, mi scrutava con occhietti a spillo, facendomi segno di avvicinarmi.
“Sono il fantasma del Lavoro Futuro”, mi disse, piantandomi in mano un testimone (di quelli da corsa, si) e indicandomi solo la direzione in cui correre. Niente domande, niente risposte, solo una pacca sulla schiena da quella mano ossuta che, chissà come, mi aveva tolto il fiato e fatto scattare.
Cominciai a correre, mentre dietro di me il fantasma si ripeteva, prima di passare al tizio in fila dietro di me.
Fu chiaro che in quel luogo non si poteva chiedere, non si potevano avere risposte, e nemmeno attenzione: quella durava meno dei classici 5 minuti di fama e gloria, e ti lasciava spossato a correre senza un perché, senza una meta apparente, e senza la possibilità di fermarti. O tornare indietro, se per quello: dietro di te una fila interminabile di disgraziati si accalcava per prendere il tuo posto.
Di quel Lavoro Futuro restò comunque poco da dire: ricordo solo l’interminabile, sfiancante corsa, che pure sembrò durare un solo istante, poco più di un battito di ciglia, anche se mi levò tipo dieci anni di vita di dosso in un colpo solo. Il freddo che mi penetrava nelle ossa e nemmeno la corsa era riuscito a scacciarlo via. La fame, insaziabile, cupa, che mi rodeva le viscere. La rabbia che mi accendeva, ma non dava più slancio al mio passo. La frustrazione, l’orgoglio che sgocciolava via da me come da una ferita aperta, assieme alla voglia di continuare a correre.
Capii l’antifona, e con un sospiro mi lasciai cadere, affranta, nel bel mezzo del nulla.
Alzando lo sguardo vidi il fantasma emaciato accanto a me, che mi valutava con il suo freddo occhio, e poi annuiva.
“Ci hai messo meno degli altri, ad arrivarci”, mi disse solo, e io quasi volevo abbracciarlo per il fatto che non era uno stupido vitellone ebete, come il suo fratello dal Passato.
“Ma non ti servirà” aggiunse.
Si, stavo quasi per rispondergli, arrivarci prima degli altri non mi è servito a non farmi licenziare, e non mi servirà a farmi assumere. Solo a farmi stare antipatica a tutti e a farmi segare prima e con più soddisfazione.
Ma avrei parlato al vento, se avessi aperto bocca, ero tornata a casa mia, nel mio striminzito soggiorno polivalente. Si, perché era anche cucina, disimpegno, sala principale – e unica – della casa e, guarda guarda, da un paio di anni a quella parte anche il mio ufficio.
Sulla seggiola accostata davanti al tavolo da cucina/scrivania c’ero io, che mi osservavo senza particolare interesse, prima di riprendere in mano il lavoro che stavo facendo. La osservai: la curva delle spalle, i movimenti meccanici, lo sguardo assente. Le chiesi cosa stava facendo, anche se era sotto i miei occhi.
Bambole, stava cucendo bambole.
Una uguale all’altra, tanto uguali che non le riuscivi a distinguere. E tutte di squisita fattura.
Non sapevo di essere in grado di fare una cosa del genere, che dalle mie mani potessero uscire delle cose così belle.
“ne devo fare così tante” mi sentii dire, con un tono di voce indefinibile “ne devo fare così tante ed ho così poco tempo, e non ho nemmeno voglia di mettermi a farle.. ma devo.”
Mi accorsi che farneticavo, mentre lavoravo. L’ago non si posava mai, la mano non si riposava mai, le bambole venivano confezionate, identiche, una in fila all’altra, e ancora io non sapevo perché.
“perché è quello che sai fare”, mi risposi senza nemmeno sollevare il capo dal mio lavoro (c’era poca luce che proveniva dalla nostra unica finestra, era quasi l’alba) “E lo hai sempre saputo fare benissimo” aggiunsi. Ma non c’era orgoglio, in quella constatazione, solo rassegnazione.
”E dopo che le avrai finite, cosa ne farai?” mi chiesi (non che vedessi la fine di tutto quel lavoro ma..ero curiosa. O forse spaventata).
Mi fermai, e ricambiai il mio sguardo: “uscirò a venderle” mi dissi, come se fosse una cosa ovvia. Come se il freddo di dicembre non ci mordesse già le carni in questo monolocale poco riscaldato.
Lei si strinse nelle spalle, e poi aggrottammo le nostre fronti, lei per tornare al lavoro, io per chiederle: “ma sono tempi duri, questi, la gente non ha soldi per comprare stupide bambole!”
“Ma sono molto belle” mi rispose lei quasi con noncuranza “forse a qualcuno piaceranno. Non se ne trovano di belle così, in giro”.
Fu quel forse a mettermi i brividi, più ancora che la mancanza di riscaldamento. Quel forse che non era una certezza, e nemmeno una speranza. Quel forse che più di ogni altra cosa era il fantasma del Lavoro Presente: incertezza, precarietà, cose di cui sentiamo parlare tutti i giorni.
La guardai e mi feci pena, ma non ebbi il tempo nemmeno di abbracciarmi, per consolarmi e dirmi che mi capivo, e mi volevo bene.. lei era scomparsa.
Ed io mi ritrovavo nel letto, appena svegliata dal canto del… la gatta.
Gli occhi pesanti come se non avessi dormito e solo un grande vuoto nella mente e nelle membra, dove avrebbe dovuto esserci un proposito per la giornata.
C’era solo sgomento.
E amore per la mia gatta, ovvio. Era quello che mi salvava ogni giorno.