Ricevo e pubblico un altro scritto di Antonio Juvarra, che da tempo mi fa l’ onore di dare la preferenza a questo sito per la divulgazione dei suoi saggi. Questa volta il docente padovano ci propone una riflessione sul problema dell’ italianità nel canto lirico. Ringraziandolo come sempre, vi auguro buona lettura.
CANTO, ITALIANITÀ E NATURALEZZA
Una concezione didattico-vocale, diffusa soprattutto all’ estero ma presente anche in Italia (e la cui espressione più eclatante troviamo nel libro su Enrico Caruso, scritto dal suo foniatra personale Marafioti), tende a mettere in relazione la nascita e lo sviluppo della scuola di canto italiana con la natura fonetica della lingua italiana. In base a questa concezione, la presenza di sole vocali pure e la ridotta frequenza delle consonanti, tipiche dell’ italiano, avrebbero fatto sì che la musicalità della lingua a un certo punto sarebbe ‘straripata’, generando il canto…
Una tesi di questo tipo, che facilmente sfocia nella mitizzazione della lingua italiana e in quel suo ‘congelamento’ che è il concetto di ‘dizione corretta’, ha un suo fascino romantico, ma purtroppo anche la stessa consistenza e attendibilità di altri analoghi luoghi comuni ‘romantico-popolari’ come, ad esempio, quello basato sull’ equivalenza Italia = pizza, sole e mare…
La prima obiezione logica a questa teoria nasce spontaneamente dalla constatazione di un fatto che ci tocca dolorosamente sul vivo ovvero: se fosse vero che l’italiano favorisce lo sviluppo del canto, i cantanti migliori sarebbero (ancora) gli italiani, quando invece, se stiamo a vedere i cartelloni dei più importanti teatri, scopriamo che essi latitano sempre di più. Eppure, nonostante molti italiani persistano sempre più nel loro ridicolo vezzo di inserire nel lessico italiano parole di una lingua che non impareranno mai e cioè l’ inglese, in Italia si continua a parlare l’ italiano, presunta naturale matrice di belcanto e di cantanti…
La seconda obiezione logica a questa tesi va più a fondo nel problema: se fosse vero che la lingua italiana è più musicale delle altre perché ha solo vocali pure e una frequenza minore di consonanti, vorrebbe dire che esistono lingue di serie A e lingue di serie B, lingue più naturali e lingue meno naturali, ipotesi che subito si auto-confuta per la sua evidente assurdità. Anche volendo attribuire la presunta maggiore ‘cantabilità’ dell’ italiano non alla sua struttura fonetica, bensì al suo ‘andamento melodico’, subito pure questo argomento si sfalda tra le dita se solo pensiamo alla diversa musicalità che caratterizza i vari dialetti, ad esempio il napoletano (con la sua ‘e’ muta) e il milanese (con la sua ‘i’ francese), oppure il veneziano (che abolisce le doppie consonanti e riduce a monovibrante la consonante ‘r’) e il palermitano (che addirittura ‘triplica’ la ‘r’…)
Non è pertanto nella lingua italiana che andrà cercata la causa dell’ origine italiana del canto classico occidentale, ma nella cultura di quella nazione che, casualmente, ebbe l’ italiano come lingua madre.
Quello che oggi viene chiamato canto lirico (o canto classico occidentale) e che nel mondo comunemente viene associato all’ Italia, nasce infatti storicamente in un ambiente culturale come quello della Firenze della fine del Cinquecento, paradossalmente ancora intriso di concezioni e idealità umanistiche e rinascimentali. Il che significa che fu andando nostalgicamente indietro verso il passato classico e non andando avanti verso il nascente barocco, che i famosi studiosi della Camerata de’ Bardi riscoprirono e fecero propria un’intuizione che è la caratteristica genetica della civiltà classica mediterranea, nata in Grecia: la conoscenza, il rispetto e la sintonia profonda con la natura. Questa sintonia, che non è banale imitazione esterna, ma assimilazione dei suoi principi profondi, è nata (e nasce) anche dalla presa di coscienza della ‘razionalità strutturale’ (che non è razionalismo) della realtà, quella razionalità che fa sì che in inglese il termine ‘inconsistent’ (che per noi significa ‘senza sostanza’, ‘vuoto’) abbia acquisito il significato di ‘illogico’. Nell’ ambito artistico questa intuizione si espresse partendo dalla scoperta di una verità profonda, che è la seguente: la modalità con cui si realizza non solo l’insuperabile funzionalità di ciò che è naturale, ma anche la sua insuperabile bellezza, è la ‘semplicità’.
Da allora in poi si penserà che la dimensione estetica non sia la costruzione artificiale e intellettualistica e l’ imposizione arbitraria di canoni meramente soggettivi (come succede con molta arte odierna), ma sia la rivelazione di ciò che È ed è sempre stato, anche prima che fosse rivelato. Il termine greco ‘physis’ e il termine latino con cui venne tradotto, ‘natura’, avevano infatti in origine un’accezione molto più ampia di quella, ridotta, che hanno assunto oggi. Il loro significato profondo (coerentemente con la radice etimologica di questi due termini, che è ‘nascere’) è infatti ‘origine’ nel senso di DNA originario che contiene già in nuce la struttura di un dato fenomeno, sicché la corretta traduzione del titolo del famoso poema di Lucrezio ‘De rerum natura’, ovvero letteralmente ‘La natura (delle cose)’, sarà ‘La struttura della realtà’ (res=cosa). Pertanto, secondo questa concezione ‘classica’, dire che qualcosa non è naturale significa semplicemente dire che è inconsistente perché irreale, mentre invece, paradossalmente, al giorno d’oggi l’affermazione di una verità analoga e cioè che il canto è naturale, è comunemente (e significativamente) giudicata l’espressione di un’ingenua utopia che si auto-confuterebbe in base alla presunta antinomia natura/tecnica, dimenticando che molti processi naturali (masticare, parlare, camminare ecc.) non sono già ‘dati’, ma necessitano di un lungo periodo di tempo per essere appresi. Il loro apprendimento avverrà ovviamente grazie a una precisa ‘tecnica naturale’ (il che non costituisce un ossimoro) che, se sostituita con l’ equivalente di molte moderne ‘tecniche vocali’, darebbe luogo, rispettivamente, a lingue maciullate, deambulazioni storpie o striscianti, afasie parziali o totali.
Uno dei più antichi filosofi greci, Eraclito, affermava: “la natura ama nascondersi”… Nell’ ambito del canto l’ affermazione andrebbe completata nel seguente modo: “la natura ama nascondersi e lascia che per un po’ di tempo gli uomini si divertano a sostituirla con i loro giochini meccanici, chiamati ‘nuove tecniche vocali’…”
Se è vero che la natura ama nascondersi, è però anche vero che l’ uomo ama scoprirla, a meno che non abbia l’ arroganza e l’ ottusa pretesa moderna di essere superiore alla natura. Tutta l’ arte che si sviluppa nel rinascimento (il canto classico essendo una delle sue espressioni più tarde) nasce da questo atteggiamento del porsi umilmente in ascolto e in sintonia con la natura profonda, rispettandone le leggi e scegliendo come guide e maestri chi aveva mostrato di conoscere meglio la mappa di questa dimensione appunto nascosta: gli artisti e i filosofi greci e latini, da allora in poi etichettati come ‘classici’. Dal concetto di ‘armonia’ (che etimologicamente significa trama, struttura) come fusione degli opposti, alla ‘proporzione aurea’, all’ uomo vitruviano di Leonardo, tutto un mondo gradualmente si rivela grazie a questi esploratori dell’ invisibile. Da questo punto di vista, diametralmente opposte sono le strade percorse dai ricercatori antichi e dai ricercatori moderni: ad esempio, da un punto di partenza comune, rappresentato dallo studio dell’ anatomia, Leonardo arriva a cogliere più profondamente il senso dell’ armonia naturale globale, esprimendolo nei suoi capolavori pittorici; partendo dallo stesso studio, i ‘ricercatori vocali’ moderni, invece, incapaci di cogliere il senso unitario del fenomeno che vanno ‘anatomizzando’ e ‘analizzando’ (due verbi che etimologicamente hanno lo stesso significato, che è, rispettivamente, ‘dividere tagliando’ e ‘dividere sciogliendo’), a forza di suddividere non riescono più a risalire a quella Unità (che, come tale, non si smembra in parti separate, ma si articola in organi viventi in reciproca interrelazione, espressioni di processi naturali dinamici), arrivando così alla dispersione e alla polverizzazione del fenomeno stesso. Ciò che rimane alla fine, non sono che i pezzi staccati di un giocattolo rotto, legati con lo spago e presentati spesso come ‘scienza del canto’.
La ‘semplicità’ naturale (che scaturisce da quel fondo della natura che secondo Eraclito appunto “ama nascondersi”) solo parzialmente è un dato di partenza, essendo in gran parte il risultato di un paziente lavoro di ‘decantazione’ e depurazione di tutto ciò che è superfluo e disarmonico. In questo senso essa è GIÀ di per sé bellezza ed eleganza; è, come la chiamerà Winckelmann, “nobile semplicità”.
L’ operazione umanistica di rivelazione della dimensione nascosta della natura parte dall’ assoluto rispetto della sua punta dell’ iceberg o strato superficiale, rispetto che nella poesia si esprimerà come scelta di un linguaggio ‘normale’, fatto di parole ‘normali’ (‘cara’, ‘bello’, ‘dolce’, ‘chiaro’, ‘prato’, ‘erbe’ ecc. sono i termini che troviamo nella poesia lirica nata con Petrarca), nel caso della pittura nella rappresentazione delle figure dei santi come uomini ‘normali’ ( e non come ‘supereroi’ dei cartoni animati) e nel caso della musica nella valorizzazione della normale e spontanea monodia, contrapposta come modello all’ ipertecnologia ingegneristica, allora imperante, della polifonia. Si scopre insomma che il semplice e il normale includono già in sé l’ ideale e lo spirituale. L’ operazione avrà successo grazie all’ utilizzo di un argumentum auctoritatis: così pensarono e fecero i greci.
Nel caso del canto classico l’ accoppiamento dell’ elegante linguaggio petrarchesco, pateticamente espressivo e già predisposto al canto, e la semplicità e spontaneità melodica della monodia popolare, avrà un effetto dirompente grazie a un elemento che agirà da lente d’ingrandimento o di fattore generativo esponenziale: la finzione teatrale, ovvero la rappresentazione scenica e, in particolare quella finzione al quadrato consistente nell’attribuire un nuovo e straordinario linguaggio ai personaggi: non più il parlato-declamato, ma, appunto, il canto continuo. Ricordiamo che nella sua originaria formulazione, il recitar cantando dei creatori dell’ opera non era concepito come parlar cantando (cioè parlato intonato o Sprechgesang) ma come cantar parlando. Essendo il ‘cerchio magico’ del palcoscenico un campo magnetico in grado di conferire un’ intensità di significato e una risonanza simbolica e trascendente ai normali eventi che nella vita normale passerebbero inosservati (un silenzio, un gesto e persino una posa immobile), ciò che accadrà nel caso della ‘teatralizzazione’ della musica, è che il canto, inserito nell’ incubatrice dello spazio scenico, avrà modo di svilupparsi come un albero maestoso in tutte le sue possibili ramificazioni, una delle quali sarà l’ agilità e la coloratura.
Il seme originario di questo albero è rappresentato quindi da quella semplicità (naturale e naturalmente nobile…) che fu scoperta per la prima volta dalla civiltà classica greca e romana e venne nuovamente posta al centro dei valori estetici e tecnico vocali dai creatori dell’opera.
“Dalle voci false non può nascere nobiltà di buon canto”, scrisse il maestro di canto e coautore della prima opera Giulio Caccini, che parlerà anche di “nobile sprezzatura di canto”, riferendosi a quella facilità e scioltezza che sono connesse col concetto di ‘naturalezza’, in opposizione a tutto ciò che è ‘artificioso’ e ‘affettato’. Più precisamente potremmo dire che a livello superficiale la naturalezza si manifesta come facilità e a livello profondo come “nobiltà” e “grazia”. In questo senso il concetto classico di ars celandi artem non è interpretato da questi autori come la simulazione di una facilità apparente, che in realtà nasconde la complicazione e la difficoltà. Questo era il significato che aveva attribuito a questo termine Baldassarre Castiglione (da cui Caccini l’ aveva desunto), scrivendo nel suo libro Il Cortegiano:
e, per dir forse una nova parola, (conviene) usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi.
La sprezzatura di Caccini ha ben altro e più profondo significato, che è quello che verrà ripreso due secoli dopo da Mancini, quando scriverà che “l’ arte vocale consiste nel conoscere dove la natura ci porti”, ossia: la tecnica vocale è un semplice mezzo per far emergere e operare la natura profonda, e non un suo surrogato.
Che l’ arte non rappresenti una dimensione autonoma dell’essere, magari opposta alla natura, ma un suo semplice ‘rivelatore’, l’ aveva capito anche Pier Francesco Tosi che nel suo testo sul canto del 1723 scrisse: “il gusto col tempo diventa arte e l’arte natura”. In altre parole, nel caso della tecnica vocale si potrebbe affermare che quando a operare non è la natura, non è neppure possibile “nascondere l’ arte”, dato che la difficoltà che si vuole nascondere si rivelerà anche visivamente come disarmonia diffusa (se non come tensione localizzata), per cui la vera ars celandi artem è in realtà ars superandi artem et inveniendi naturam, ossia è un superare le barriere fittizie che dividono arte e natura, consentendo una loro ‘osmosi’ in modo che ad agire sia la natura come dimensione universale e sovrasoggettiva, e non noi come esseri individuati e limitati. Quel superamento dell’arte, insomma, non è che il ritorno alla natura del ‘figliol prodigo’, che aveva pensato di essere indipendente o superiore alla natura…
Lo stesso principio venne espresso nel Seicento da Francesco Bacone col suo famoso aforisma: “homo natura parendo imperat”, ovvero: “si comanda alla natura ubbidendole…” Lo stesso principio verrà riproposto nei primi anni del Settecento, sulla scia della riscoperta della natura e della semplicità (quale si esprimerà anche nel movimento contemporaneo dell’ Arcadia) quando il primo trattatista vocale Pier Francesco Tosi metterà in guardia contro i pericoli delle degenerazioni meccanicistiche del canto di quel tempo (un canto risucchiato dal vortice dell’ agilità e della coloratura fini a sé stesse) e prescriverà come cura una reimmersione nella fonte originale, cioè in quel canto nobilmente semplice, umano, pateticamente espressivo e naturalmente legato degli inizi dell’ opera. Lo stesso principio occorre mettere al centro degli studi vocali oggi che il canto è circondato e assediato da concezioni ad esso totalmente estranee, che ne minacciano non la sopravvivenza (dato che natura omnia vincit) ma il naturale apprendimento e la diffusione.
Antonio Juvarra