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I piccioni sono stati i veri trionfatori dell'ultima Mostra del Cinema di Venezia, e non solo perchè la città lagunare è famosa per il numero spropositato di volatili che regna incontrastato in Piazza San Marco, ma perchè un singolo piccione, che posato su un ramo riflette sull'esistenza, si è accaparrato il Leone d'Oro dell'edizione numero 71.
Il film di Roy Andersson (A Pigeon sat on a branch reflecting on existence, per l'appunto) ha conquistato i giurati, un po' meno la sottoscritta anche perchè i primi minuti -a detta di molti i più divertenti- della pellicola sono andati persi dal passaggio tra una sala e l'altra, e l'entrare nel mood giusto, nella visione giusta, visto come il film è composto, non è stato semplicissimo.
Per capirci un po' di più, e per approfondire un regista classe 1943 che vanta solo 5 lungometraggi nella sua carriera, sono andata a pescare il primo capitolo di una trilogia che proprio il piccione chiude.
Ed è sembrato di tornare lì, nella fredda PalaBiennale, con il fiatone per la corsa fatta, con lo sguardo perplesso nel trovarmi di fronte uno dopo l'altro quadri di uomini soli, di uomini altamente malinconici e con ogni probabilità depressi.
Non la stessa ironia, però, non lo stesso umorismo non-sense né gli stessi colori seppia e spenti, ma una virata verso un azzurrino glaciale e un ché di grottesco.
E nemmeno tristi rivenditori di scherzi come protagonisti, ma adulti disperati che perdono il lavoro o la loro azienda, mentre i grandi capi si interrogano senza trovare sensate soluzioni sul perchè della crisi, su licenziamenti necessari.
In questo squarcio nel mondo e nelle vite di questi personaggi stralunati, non mancano comunque le risate, con il mago la cui magia non riesce, con i flagellati che si uniscono a un'interminabile ed enigmatica coda d'auto, con il generale centenario festeggiato ma perso nei ricordi nazisti.
In questo marasma di disperazioni, forse solo il vero pazzo, pazzo non è, affossato dalla sue poesie che in realtà sanno di verità.
La sensazione è sempre quella: si percepisce che Andersson vuole dirci e comunicarci più di quel che mostra, che dietro questi tranche de vie, queste gag di pochi minuti, si nascondono riflessioni sull'esistenza, sulla condizione dell'uomo di oggi di non poco conto.
Sarò dura di comprendonio io, però, ma queste riflessioni arrivano fino ad un certo punto e solo quando diventano palesi con immagini cariche di icone (sacrifici umani, Cristi in discarica), fermandosi il più delle volte alla superficie dell'assurdità che si respira in ciò che si vede.
Ed è un limite che non mi fa apprezzare appieno il lavoro del regista, né me lo fa adorare come chi già all'uscita dalla sala veneziana gridava al capolavoro.
La struttura dei due film (e come si vedrà domani anche del secondo capitolo della trilogia), è infatti la stessa: camera fissa, posizionata nell'angolo più suggestivo di camere scarne, corridoi, bar e stazioni vuote il cui vuoto è ancor più significativo per come riempie la scena in profondità. Andersson si concede un singolo movimento su carrello per tutta la durata del film, un carrello che segue le ossessioni di Karl, i fantasmi che lo tormentano.
Le canzoni che ci si aspetta dal titolo arriveranno in seguito, qui, nei secondi piani riempiti da vuote esistenze, si aggirano solo solitudini e riflessioni non colte.
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