Sandro Veronesi, Terre rare, Bompiani *Narratori italiani* (2014), 407 pagine, 19 euro
Sandro Veronesi non è ripartito da dove ci aveva lasciato con Caos Calmo. Ha incontrato di nuovo il suo Pietro Paladini dopo qualche anno e lo ha fatto di nuovo parlare in prima persona per raccontarci a che punto siamo.
Veronesi, nonostante abbia vinto lo Strega nel 2006, è veramente un narratore abile e competente. Riesce a prendere per mano il lettore e fargli accettare tutto, farlo andare avanti a grandi passi, con estrema fiducia.
Riesce, in questo romanzo e soprattutto nella prima parte, a far accettare a chi legge lunghi aneddoti che sembrano avere poco a che vedere con la trama; alterna dialoghi rapidissimi e fatti da botta e risposta piuttosto serrati e a volte stringati a descrizioni particolareggiate e lunghissime, spesso caratterizzate da una punteggiatura al limite, con poche virgole che scandiscono il discorso e punti sporadici.
Lo scrittore fa entrare, anzi, fa scivolare nella vita più vera, tocca ambienti diversi, località e città diverse e solo mentre si va avanti, al suo fianco, ci si accorge che forse le descrizioni particolareggiate che a volte si ha il desiderio di “saltare” servono proprio a far immergere completamente nel pezzetto di vita che Paladini sta percorrendo.
E in quello che sembra un soffio ci si ritrova catapultati da una piccola villetta coatta di Passoscuro, insieme a una ragazza di borgata, a uno studio legale con mobili di pregio e lusso in una Milano chic e ancora rampante.
E ci si ritrova coinvolti in una storia che prende, un giallo la cui soluzione non è troppo importante nella sua sostanza ma nel suo sviluppo. Pietro viene invischiato suo malgrado in un giro loschissimo di affari gestito dal suo socio insieme a una banda di rumeni che ruota intorno alla compravendita di automobili rubate (espediente che potrebbe anche sembrare banale, ma che appunto può essere considerato un espediente) e la cosa muove in profondità non solo dinamiche legali, ma scuote nel profondo il personaggio Paladini e la vita che forse, da qualche tempo fin dalla morte della moglie, ha finito per scivolargli addosso.
Il Pietro di Terre rare ritrova se stesso in altre perdite (come la prima volta, con la perdita della moglie Lara, aveva perso se stesso): l’abbandono della persona che gli sta accanto – profondamente diversa da lui, in maniera quasi inverosimile; la fuga della figlia a cui si era attaccato in maniera quasi morbosa; il lavoro che lo aveva accompagnato e trascinato per anni. Si riappropria quindi della sua dignità decidendo di scegliere come proseguire il suo cammino. E finalmente esce dall’immobilismo e dalla passività che lo aveva avvolto, in quel caos calmo in cui lo avevamo lasciato.
Gli ambienti di questo libro sono particolarmente curati e “veri”, a tal punto che l’epilogo finale rasenta la perfezione in una confessione fra i banchi salumi e le casse di acqua minerale di un supermercato. Lui e Marta, la cognata, si ritrovano seduti per terra e noi, dall’altra parte, come se solo verso la fine avessimo acquisito la sicurezza di lettori e potessimo assistere da soli, lasciando la mano dell’autore, ci ritroviamo a osservare e ascoltare, trattenendo il fiato, e rilassandoci insieme a lui, dopo una corsa ansiogena di quasi quattrocento pagine.