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Caos in Yemen: Il Vietnam dei sauditi?

Creato il 21 luglio 2015 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
Caos in Yemen:  Il Vietnam dei sauditi?

Lo Yemen è entrato ormai a pieno titolo nella lista dei  focolai che stanno devastando la regione mediorientale a colpi di bombe e lotte intestine. La lotta interna per il potere, che è sfociata nella conquista della capitale Sanaa da parte dei ribelli Houthi, nel settembre 2014, ha preso una piega diversa a partire dal 26 marzo, dopo il lancio dell’operazione “Tempesta Decisiva” da parte della coalizione a guida saudita. Dopo diversi mesi di bombardamenti e un bilancio di morti sempre crescente, gli scopi della missione, disarmare e costringere alla resa gli Houthi per reinsediare il Presidente Rabbuh Mansour Hadi rifugiatosi a Riyad, appaiono quanto mai lontani.

 
Il 26 marzo 2015 la monarchia saudita ha lanciato l’operazione “Tempesta Decisiva” contro gli Houthi, gruppo tribale concentrato nel Nord dello Yemen e organizzato sotto la leadership di Abdel-Malek Al Houthi. Della coalizione anti-Houthi fanno parte, a diverso titolo, la Giordania, il Marocco, il Bahrein, il Kuwait, il Qatar, l’Egitto, il Sudan, gli Emirati Arabi Uniti e il Pakistan con l’appoggio di Stati Uniti e Unione Europea. Al momento del lancio dell’operazione militare, gli Houthi e i loro alleati erano arrivati ad Aden, nel sud del Paese, dove il Presidente Hadi si era rifugiato dopo la conquista della capitale da parte dei ribelli. I tentativi di riconciliazione allora in corso, mediati dalle Nazioni Unite, prevedevano che il Presidente Hadi avrebbe conservato la propria carica e che il suo vice Khaled Bahah venisse messo a capo del nuovo governo. L’Arabia Saudita però – forte dell’appoggio diplomatico ricevuto con l’approvazione della risoluzione presentata al Consiglio di Sicurezza dell’ONU e in risposta alla richiesta dello stesso Hadi – ha deciso di passare all’attacco. La risoluzione sanciva l’embargo nei confronti degli Houthi, ma non delle altre parti coinvolte, e ordinava loro di ritirarsi da tutte le città conquistate come precondizione per la ripresa dei negoziati. La Russia, che, insieme all’Iran, era a favore di un embargo verso tutte le parti del conflitto, ha scelto di astenersi invece di usare il proprio potere di veto.

L’operazione “Tempesta decisiva”, dichiarata conclusa e ora seguita da una nuova fase umanitaria battezzata “Restaurazione della speranza”, non ha raggiunto i suoi obiettivi. Nonostante il successo proclamato dai sauditi, infatti, gli Houthi controllano ancora la capitale e la maggior parte di Aden. Inoltre, durante i raid, i sauditi si sono tirati addosso le critiche di numerosi stati e organizzazioni per la poca attenzione riservata ai civili. Ad essere colpiti dai bombardamenti, infatti, sarebbero stati anche ospedali, aeroporti, scuole e moschee, considerati obiettivi militari perché utilizzati dagli Houthi come depositi di armi secondo l’Arabia Saudita. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, intanto, ha avvertito che il sistema sanitario del Paese è al collasso. Già prima dello scoppio della guerra la situazione era precaria in Yemen, il più povero fra i paesi arabi e 152esimo nell’Indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite.

A livello strategico, più che sul piano economico, la valenza strategica dello Yemen è da ricercarsi nella sua collocazione geografica: la vicinanza all’Arabia Saudita, con cui condivide un confine di 1800 km, e il controllo sullo stretto di Bab al Mandeb (via di accesso al Canale di Suez e dal quale passano circa 4 milioni di barili di petrolio al giorno). Lo Yemen è anche una delle arene in cui si svolge il conflitto regionale tra l’asse sciita, guidato dall’Iran, e l’asse sunnita, guidato dalla famiglia dei Saud. Dalla prospettiva saudita se l’Iran, considerato il principale sponsor degli Houthi, riuscisse ad espandere la sua influenza anche in Yemen, la monarchia si troverebbe accerchiata. Inoltre, lo Yemen è un altro degli scenari della guerra al terrorismo lanciata dagli USA contro Al Qaeda e le sue più recenti diramazioni. Al Qaeda nella Penisola Arabica (AQPA), considerato il gruppo più pericoloso dagli USA, è l’attore che più ha beneficiato degli eventi recenti e della militarizzazione della politica yemenita. I jihadisti sono riusciti a conquistare la città di Mukalla, nell’est del Paese, e ad impossessarsi delle basi militari, mentre l’esercito yemenita non opponeva alcuna resistenza. Essi sono entrati in possesso di nuove quantità di armi e hanno esteso la propria area di influenza alleandosi con alcune tribù del sud. Lo Stato Islamico (IS), che era apparso per la prima volta nel conflitto yemenita il 20 marzo, ha rivendicato la decapitazione di 15 soldati yemeniti di cui è stato pubblicato un video secondo la prassi ormai consolidata del gruppo.

Qualche passo indietro

Lo Yemen è stato governato dagli Imam zaiditi per più di mille anni, fino al 1962, quando un colpo di stato guidato dai militari sotto l’influsso dell’Egitto di Nasser, rovesciò il governo dell’imam Muhammad al-Badr per instaurare la Repubblica al posto del Regno Mutawakkilita. L’impegno egiziano per supportare la rivolta repubblicana yemenita conobbe un\’accelerazione non indifferente negli anni seguenti, con l’impiego di 70 mila militari egiziani, 10 mila dei quali morirono sul campo. Al contrario di quanto succede oggi, all’epoca l’Arabia Saudita sosteneva il ritorno al potere degli Imam zaiditi, finanziando i combattenti che puntavano a rimettere in piedi l’imamato. Lo Yemen uscì dal conflitto diviso in due: il Nord diventò una repubblica e finì presto nella sfera di influenza saudita; il sud, occupato dalla Gran Bretagna, si liberò nel 1967 per divenire una repubblica di stampo marxista. Nei decenni successivi, uomini forti sostenuti dai sauditi governarono il Nord e, a partire dal 1990, lo Yemen riunificato. Tra questi, l’ex Presidente Ali Abdullah Saleh, prima Ufficiale dell’esercito, poi Governatore militare e infine, dal 1978, Presidente.

Nel 1994, dopo la riunificazione scoppiò una nuova guerra civile da cui il governo comunista del sud uscì sconfitto. Qui affondano i sentimenti di marginalizzazione delle popolazioni delle regioni meridionali, che cominciarono a chiedere nuovamente la secessione, convinte di essere state escluse dal potere centrale.

Il governo di Saleh si contraddistinse per la persecuzione della minoranza zaidita, di cui egli stesso fa parte. L’esercito yemenita, in particolare, portò avanti 6 campagne contro le insurrezioni degli Houthi dal 2004 al 2010. Tali insurrezioni avevano alla base ragioni di natura socio-economica e politica: al centro delle loro rivendicazioni vi era la lotta contro l’oppressione del governo, contro la propaganda salafita – sponsorizzata dai sauditi – e contro gli interventi USA nel proprio paese. Quando nel 2011, sulla scia delle primavere arabe, le proteste iniziarono a guadagnare forza anche in Yemen, gli Houthi vi ricoprirono un ruolo centrale. L’esercito iniziò presto a vacillare e si verificarono le prime defezioni, tra cui quella del Generale Ali Mohsen al-Ahman, solo la prima di una lunga serie.

Nel 2012, dopo 34 anni di regime, Saleh venne deposto e con l’accordo mediato dal Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) i poteri vennero trasferiti al suo Vice Mansour Hadi. Gli Houthi, allora, detenevano un’importante fetta di potere, ma furono ugualmente marginalizzati dal processo politico guidato dal CCG e dal successivo governo di transizione, finché non riesplosero le proteste, trasformatesi poi in vero e proprio conflitto.

Quando la ribellione degli Houthi ha raggiunto Sanaa, nel settembre 2014, le forze armate sono state incapaci di rispondere in maniera efficace. L’esercito era diventato il regno delle tribù, che determinavo i ruoli di potere e la catena di comando molto più delle normali gerarchie militari. Nel frattempo gli Houthi, rinvigoriti dalle successive vittorie, si sono reinventati come nuovo esercito del Paese e, dimostrando un elevato grado di pragmatismo, non hanno disdegnato l’alleanza con il nemico del passato Saleh, quando è risultato necessario per incrementare la propria forza.

Gli Houthi e l’Iran

Fin dall’inizio, la narrazione saudita dello scontro in Yemen ha messo l’accento sul carattere settario dello stesso, concentrando l’attenzione sulla dimensione religiosa della lotta fra la minoranza sciita e la maggioranza sunnita. Ne è seguita la facile associazione tra gli Houthi e l’Iran, considerato il principale finanziatore del gruppo tribale yemenita che, a sua volta, sarebbe il veicolo tramite cui Teheran mira ad espandere la propria influenza in Yemen. Questa visione, però, è viziata da una lettura del panorama politico, sociale e religioso dello Yemen estremamente riduttiva.

La popolazione dello Yemen può essere, per semplicità, divisa in due tronconi principali: i sunniti, concentrati nel sud e gli zaiditi, presenti nel nord. Lo zaidismo, cui aderisce circa il 40% della popolazione yemenita, è la branca più antica dell’Islam sciita, molto differente dal credo della maggioranza degli sciiti duodecimani e dall’Islam professato in Iran. Gli Zaiditi, che prendono il nome dal quinto imam Zayd, si rifanno a tradizioni tramandate fin dall’ VIII secolo d.C., quando la comunità musulmana stava affrontando il suo primo grande scisma. Ansarallah è il braccio politico degli Houthi, ma include al suo interno anche membri sunniti, tra cui figurano anche alcuni dei suoi leader, come Ali Al Amad.

Il braccio militare degli Houthi, invece, ha avuto modo di svilupparsi soprattutto attraverso il ricchissimo mercato nero interno. Lo Yemen è al terzo posto nel mondo per la concentrazione di armi pro-capite e un rapporto delle Nazioni Unite di quest’anno stima che in Yemen esistano dai 40 ai 60 milioni di armi. Gli Houthi, inoltre, hanno beneficiato, dal 2004 al 2010, del flusso di armi proveniente dai comandanti corrotti dell’esercito. Dal 2014, poi, è stata determinante l’alleanza con l’ex Presidente Saleh, altra grande fonte di armi. Saleh, infatti, ha continuato a controllare l’esercito attraverso i suoi alleati posti nelle posizioni di comando. È stata questa nuova forza a spingere gli Houthi a conquistare Sanaa. Durante questa fase, gli Houthi si sono impossessati di tutte le armi con cui gli USA avevano inondato il Paese negli anni precedenti. Secondo documenti del Pentagono, acquisiti da Joseph Trevithick, il Dipartimento della Difesa ha inviato 500 milioni di dollari in armamenti all’esercito yemenita dal 2006 in avanti. Di recente, poi, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha reso pubblico un rapporto sui legami tra gli Houthi e l’Iran, nel quale si afferma che l’Iran ha venduto armi al gruppo yemenita fin dal 2009. Alla luce di tutto ciò, è evidente che la relazione tra il gruppo e l’Iran sia stata sopravvalutata dall’Arabia Saudita. L’Iran rappresenta sì una fonte di supporto finanziario e militare, ma non sembra ricoprire il ruolo determinante che gli è attribuito.

Tirando le somme, gli Houthi sono solo una delle tribù yemenite e non rappresentano la totalità della comunità zaidita dello Yemen; la loro affiliazione alla setta zaidita, inoltre, non ha avuto, finora, conseguenze sul piano politico. Il problema in Yemen non è mai stato lo scontro tra sciiti e sunniti, quanto quello tra gruppi tribali rivali. Non è realistico pensare che la minoranza zaidita, vissuta nel paese fin dall’VIII secolo d.C., possa diventare di colpo una minaccia alla sicurezza nazionale. Più realistico è pensare che la religione sia strumentalizzata per nascondere ambizioni molto più terrene, sia in politica interna che in politica estera. A beneficiare di tali strumentalizzazioni sono stati, finora, i sauditi, che hanno represso con violenza tutte le battaglie per la conquista dei diritti umani da parte della minoranza sciita interna, concentrata nella provincia orientale di Qatif. Inoltre, gruppi come Al Qaeda e, più di recente, l’ISIS hanno beneficiato dell’ascesa di sentimenti anti-sciiti, in Yemen come nel Medio Oriente nel suo complesso.

L’Arabia Saudita e gli alleati recalcitranti

La paranoia saudita riguardante lo Yemen non ha inizio con questo conflitto. Si è già detto dell’intervento nella guerra civile yemenita del 1962 contro le spinte repubblicane. Quando poi, nel 1990, avvenne la temuta riunificazione, l’Arabia Saudita cercò invano di far deragliare quel processo, offrendo il proprio supporto ai secessionisti nella guerra civile scoppiata nel 1994. I sauditi ebbero un ruolo anche all’interno del processo di transizione successivo alla Primavera araba yemenita. Essi, poi, non sono nuovi allo scontro con gli Houthi, che nel 2009 riuscirono a penetrare nel territorio saudita, conquistando la città di Jizan e ritirandosi solo dopo aver ricevuto in cambio una lauta ricompensa in denaro.

Quando re Mohammed bin Salman ha lanciato “Tempesta Decisiva” il 26 marzo, lo ha fatto convinto di vincere e di vincere in fretta, potendo contare su milioni di dollari in armi nuove di zecca e su alleati potenti come l’Egitto e il Pakistan, che si sarebbero mostrati riconoscenti per tutti gli aiuti ricevuti finora. Convincere Turchia, Egitto, Qatar ed Emirati Arabi Uniti a unire le forze contro l’espansione iraniana, superando le divisioni delle potenze sunnite relativamente alla Fratellanza Musulmana, rappresenta sicuramente un successo per Riyad assieme alla compiuta imposizione delle priorità saudite di politica estera, ossia arginare il pericolo iraniano e imporre la lente settaria per guardare ai conflitti della regione.

C’è chi sostiene, poi, che più che contro la minaccia iraniana i sauditi si siano mossi contro la minaccia della democrazia. L’accordo che si stava per raggiungere in Yemen con la mediazione dell’ONU, prima che gli scontri portassero alla fine dei negoziati, prevedeva un’eguale partecipazione e rappresentanza delle diverse forze politiche all’interno del governo, Houthi compresi. L’accordo, prima dell’inizio dell’operazione militare, era ad un passo dalla sua conclusione secondo quanto affermato dall’ex inviato ONU per lo Yemen, Jamal Benomar, che ne aveva anche informato il Consiglio di Sicurezza per poi dimettersi dal suo incarico. Un governo democratico proprio nel cortile di casa sarebbe stato forse troppo pericoloso per la sopravvivenza della monarchia assoluta dei Saud. La risposta armata, quindi, rientrerebbe nell’atteggiamento che finora l’Arabia Saudita ha assunto nei confronti di tutte le insurrezioni che si sono sviluppate nelle sue aree di interesse, un esempio su tutti la repressione operata in Bahrein.

Con il passare del tempo, gli animi degli alleati si sono raffreddati. Gli egiziani potrebbero tirarsi indietro, memori del passato intervento ricordato come “Vietnam egiziano” e consci dell’attuale impegno dell’esercito contro gli attacchi terroristici nel Sinai. Inoltre, le relazioni del Cairo con la Russia e l’Iran ne uscirebbero danneggiate. D’altro canto, non appoggiare i sauditi darebbe un duro colpo alla relazione con il principale finanziatore del regime di Al Sisi.

Anche il Pakistan e la Turchia non si sono dimostrati così proattivi come sperato da re Salman, probabilmente perché consapevoli di avere mutui interessi con il vicino Iran. Il primo ministro pachistano Nawaz Sharif si è nascosto dietro un’articolata risoluzione del Parlamento per coprire il proprio rifiuto. Dai problemi con la minoranza sciita interna alle tensioni sul confine con l’India, dalle insurrezioni dei talebani a quelle dei baluchi, il Pakistan ha troppe gatte da pelare per impegnarsi su un nuovo fronte. Oltre a ragioni di sicurezza, esiste anche un fattore economico da non sottovalutare. Il Pakistan, infatti, ha in cantiere la costruzione di un gasdotto di collegamento verso l’Iran che dovrebbe terminare tra il 2016 e il 2017.

La Turchia potrebbe rappresentare il partner ideale per i sauditi, che in cambio dell’appoggio nel contenimento dell’influenza iraniana in Yemen potrebbero offrire il proprio appoggio alla proposta turca di una no-fly zone in Siria, contrastata dagli USA. Se l’operazione in Yemen avesse successo, Erdogan potrebbe agire senza l’avallo esplicito degli USA, emulando quanto fatto dai sauditi. L\’Arabia Saudita e la Turchia emergerebbero, così, come il contrappeso principale all’Iran nella regione. Queste considerazioni, però, si scontrano con la realtà che vede la Turchia condividere un confine e simili interessi con l’Iran. Nonostante opinioni differenti su alcune questioni, tra cui la Siria, il commercio tra i due paesi continua ininterrotto. Dopo l’ultima visita di Erdogan in Iran, entrambi i paesi si aspettano di raddoppiarne il volume fino a raggiungere 30 miliardi di dollari in traffici. Inoltre, l’Iran esporta 10 miliardi di metri cubi di gas verso la Turchia, cosa che lo rende il secondo esportatore in Turchia e che rende quest’ultima il cliente più importante. Senza contare che le imminenti elezioni rendono improbabile un intervento massiccio dell’esercito turco in Yemen.

Gli USA, che hanno appoggiato logisticamente la missione e fornendo dati di intelligence ai sauditi, hanno mantenuto una posizione alquanto defilata. In particolare, è strano come gli Houthi siano riusciti nella loro impresa proprio di fronte alla base militare USA di Gibuti, cuore della lotta al terrorismo americana. L’appoggio di Obama all’operazione militare guidata dall’Arabia Saudita, d’altro canto, ha permesso al Presidente di bilanciare la propria posizione nella regione dopo che, sia dalle capitali arabe sia dall’interno del Congresso, si erano levate voci contro un presunto riallineamento statunitense in favore di Teheran – con riferimento ai negoziati sul nucleare – a svantaggio dei tradizionali alleati del Golfo. I rischi per l’amministrazione statunitense riguardano proprio l’andamento dei negoziati con l’Iran, che potrebbero risentirne qualora gli oppositori interni alla Repubblica Islamica e al Congresso USA approfittassero del conflitto yemenita per orientare il dibattito in loro favore.

Conclusioni

Molto probabilmente la campagna di raid aerei non sarà sufficiente a decretare un vincitore. L’impasse attuale lascia ai sauditi due possibilità: continuare a combattere gli Houthi dall’alto o assemblare una forza di terra per riconquistare Aden, ipotesi che non sembra più così remota dato il recente dispiegamento di forze di terra al confine. I rischi di impantanarsi in una guerra logorante e cruenta sono sempre più elevati; una guerra che potrebbe avere ripercussioni durature non solo in Yemen, ma nell’intero sistema geopolitico della regione. Il vuoto di potere potrebbe essere colmato da forze pericolose come AQPA e altri gruppi jihadisti, che ne stanno già approfittando. In ogni caso, anche qualora il conflitto armato dovesse concludersi, l’avvio di un processo di riconciliazione e la configurazione di un governo di unità appaiono dei miraggi al momento. Il Presidente in esilio è una figura debole, fuggito dalla sua capitale e costretto a nominare il suo Primo Ministro Khaled Bahah Vice Presidente. Quest’ultimo ha legami più forti con le diverse forze politiche yemenite rispetto a Hadi e la sua nomina potrebbe essere letta come il riconoscimento da parte saudita della debolezza politica di Hadi in Yemen.

Nel frattempo, sono già almeno 15 mila le persone in fuga dallo Yemen sbarcate fra la fine di marzo e i primi di maggio in Somalia e a Gibuti. Si tratta soprattutto di somali, seguiti da yemeniti, etiopi, eritrei, sudanesi, siriani e gibutini ma anche di alcune decine di lavoratori asiatici e europei. Su un totale di 24 milioni di abitanti, infatti, lo Yemen contava quasi 250 mila rifugiati (un numero tre volte superiore a quello dell’Italia). Per un paese in cui, già prima dell’attuale conflitto, la malnutrizione era paragonabile agli stati dell’Africa sub-sahariana, solo metà della popolazione aveva accesso ad acqua potabile e che importava il 90% dei cereali per usi alimentari, questo conflitto rappresenta una catastrofe umanitaria.

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