Un anno prima che scoppiasse la guerra civile spagnola, Robert Capa era in Andalusia. "Quando arrivò, Capa non era ancora Capa, bensì André Friedman, perciò nessuno era interessato a quel tesoro che erano i negativi del suo viaggio" - sostiene Carmen Rengel, autrice de "Il viaggio andaluso di Robert Capa", un saggio che ripercorre il cammino del fotografo ungherese, inviato speciale all'estero. "Bevila a grandi sorsate", dice un verso di Brecht, riferendosi alla vita. Una filosofia cui Capa, in quel 1935, si attenne rigorosamente. "Era un ventiduenne avido di sensazione che, arrivato a Siviglia, voleva sentirne il polso. Durante quel viaggio" - spiega Rengel - " riuscì a godere di ogni cosa". Ancora non si era coinvolto politicamente e perciò era "più concentrato sul piacere che sulla sofferenza". Anche se era stato perseguitato nella sua natia Ungheria. Prima degli allori e della fama, André Friedman - solo un anno dopo, allo scoppio della guerra, avrebbe cambiato il suo nome in Robert Capa - soffrì l'anonimato e la precarietà del lavoro. Dopo aver cercato invano un'opzione per San Sebastian e Madrid, sarebbero state la passione solenne della Settimana Santa di Siviglia e la gioia della Festa d'Aprile, che gli avrebbero permesso di muovere i primi passi, fruttuosi, nella sua professione. Il suo obiettivo era sempre puntato su come le persone affrontavano, vivevano e digerivano gli eventi, piuttosto che sui cerimoniali. Era la sua mania, quella di guardare le persone, e non gli accessori.
Totalmente alieno alla devozione e alle confraternite, ai fronzoli e alle sivigliane, alla conoscenza autoctona degli appuntamenti primaverili della città, Capa pose rimedio alla sua ignoranza. Mescolata, nella sue lettere, si trova la descrizione della Settimana Santa e della Festa, come se fosse un'unica celebrazione. Concentrato assai più sugli effetti della fede, piuttosto che sulle figure che la generavano.
Scrive nelle sue note che è "la festa più sacra, e allo stesso tempo la più profana, d'Europa". Le strade di Siviglia "erano piene di gentiluomini a cavallo, dame con mantelli su vecchie carrozze, gitani, ballerini di flamenco, toreri, gente vestita in abiti folcloristici in modo arruffato, migliaia di turisti ubriachi e chiassosi, ragazzini che sparavano petardi e, soprattutto, spettacolari processioni religiose". E su queste si concentrò, anche se le sue immagini dimostrano come fosse alla ricerca dell'umano, assai più che del divino. Le sue fotografie sequestrano le facce, i gesti, le emozioni. Non un solo passo in processione, salvo per uno scorcio, in un angolo morto.
Delle tre immagini, le sole che ho trovato, due sono scattate durante la settimana santa; la terza durante la Festa. La prima ha catturato un bambino, durante la processione per San Fernando, un'asta in mano e la maschera sollevata, poco distante dagli "Accoliti di Cristo".
L'altra immagine della settimana santa è stata presa in prossimità del duomo. Non mostra in alcun modo i fasti e gli splendori delle confraternite, né il lusso della borghesia, stipata sui palchi. Si vede la gente umile che copre le scale, in piedi, dietro le sedie, accatastate a sbarrare il passaggio, al sole. Devozione e forza. Visi rugosi, bambini con le stampelle, poliomielitici, c'è anche una guardia col cappello tricorno.
"Che gioia in Spagna, quale intensità di vita!" - scrive in una lettera a sua madre, Julia. Ecco, la terza foto, sulle giostre volanti, i bambini con i calzoni corti di flanella.
Quando nel 1936, accompagnato dalla sua complice, personale e professionale, la fotografa Gerda Taro, André - che era adesso Robert - dovette confrontare l'orrore con la bellezza che aveva vissuto un anno prima, dovette confrontare il contrasto. Nel 1937, tornò ad Almeria, dove fotografò i rifugiati che erano scampati al feroce bombardamento di Malaga. Arrivò fino a La Granjuela, Cordoba, insieme ai resistenti repubblicani. Aveva cura di non scattare foto in cui ci fossero fucili o carri armati, perché uno sguardo racconta assai meglio il dolore e la dignità.