Quando vidi per la prima volta The Rocky Horror Picture Show rimasi sconvolta dalla maestria con cui Tim Curry incalzava sul suo tacco 12. Io non ci sono mai riuscita! Ma ero ancora piccina per capire veramente il valore di quel tacco ed entrare tra le trame delle sue calze a rete. Anni dopo mi capitò di vedere un altro musical en travesti, intitolato Hedwig and the Angry Inch e così ripescai dalla memoria l’immagine delle labbra rosse di Tim Curry; il giorno dopo rivedevo il film e cominciavo a capire, canticchiavo “Touch-a, touch-a, touch me, I wanna be dirty” o “I’ve got it all sewn up, a hardened razor-cut, scar map across my body” da Hedwig. Rocky vs. Hedwig. Ma non si tratta di uno scontro, quanto di una esplorazione generazionale sulla sorte del travestitismo tra gli anni settanta e l’inizio del 2000.
Quello del Rocky Horror Picture Show è un vero e proprio fenomeno culturale e a pien diritto il più importante musical con componenti en travesti. Richard O’Brien e Jim Sharman misero prima in scena lo spettacolo teatrale (1973) e due anni dopo debuttarono sul grande schermo. Il vero successo arrivò però con i midnight show, le proiezioni di mezzanotte. La pellicola piacque così tanto che la gente non poté far altro che cominciare a parteciparvi attivamente: si andava lì travestiti come i personaggi del lungometraggio, molti lo avevano visto così tante volte che potevano recitarlo tutto a memoria e non mancavano di certo i commenti a favore di un personaggio e a sfavore dell’altro e gli attori improvvisati che dall’alto delle loro poltrone recitavano la parte del loro hero. Il Rocky non era solo un film, ma stava diventando un momento quasi catartico, in cui ci si spogliava di sé stessi per acquisire nuovo significato, per dimenticare, forse, il mondo di fuori e calarsi in uno in cui ci si poteva veramente sentire sé stessi. Quale miglior pratica en travesti di questa?
Quello che rendeva il musical rivoluzionario era il suo l’intreccio di ruoli eterosessuali, bisessuali e transessuali che andava dritto a schiacciare – e qui interviene il potere del tacco – quei noiosi canoni di normalità imposta e a riscriverli su nuove e impensabili prospettive – le calze a rete del dottore, appunto: come introdotto dalle labbra rosse che compaiono sullo schermo ad inizio film «you’ve never seen anything like The Rocky Horror Picture Show». Ed era proprio vero se lo studioso Andrea Jelardi lo descrisse poi come «un incubo erotico oltre ogni limite [...] peccaminoso e disinibito omaggio ai generi horror e fantascienza ed alla musica rock».
Per chi non ne avesse sentito parlare, tutto ruota intorno alla figura del dottor Frank-N-Furter (Tim Curry): uno scienziato en travesti (quello che intonava “I’m just a sweet transvestite from Transexual, Transylvania”) dalla movimentata vita sessuale. Atterrato sulla terra con la sua astronave trasformata in castello e accompagnato dai servitori Raff Raff e Magenta, crea Rocky: una creatura-amante in grado di soddisfare i suoi appetiti sessuali. Ed ecco che ad essere coinvolti saranno due castissimi fidanzati (Susan Sarandon e Barry Bostwick), malcapitati – o forse no? – alla corte del dottore. A loro Tim Curry, in una indimenticabile interpretazione in calze a rete e baby doll e dall’alto delle sue zeppe, lancerà un fondamentale messaggio: Don’t Dream It, Be It! Non sognare, sii quello che senti di essere. Magnifico manifesto dell’amore libero e svincolato da ogni pensiero – se non quello del piacere – il musical è accompagnato da una bellissima, irresistibile, colonna sonora, il cui sound rock esplode di sensualità ed energia, o si fa più romantico e malinconico.
I thought there’s no use getting into heavy petting
It only leads to trouble and seat wetting
Now all I want to know, is how to go
I’ve tasted blood and I want more
I’ll put up no resistance, I want to stay the distance
I’ve got an itch to scratch, I need assistance
Touch-a touch-a touch-a touch me, I wanna be dirty
Thrill me, chill me, fulfill me
Creature of the night
Se il Rocky si immolava in nome della libertà sessuale, siamo ancora lontani da una piena accettazione di quell’elemento disturbante qui espresso nel travestitismo (si veda, non a caso, la fine che farà il dottore). In Hedwig, però, cambiamo prospettiva: si parte da dentro, dalla percezione che ognuno ha di sé stesso. Pressoché sconosciuto in Italia, Hedwig and the Angry Inch, merita assolutamente di esser visto e vi assicuro che vi conquisterà. Forse perché, a differenza che in The Rocky Horror Picture Show – i cui personaggi sono in parte reali – Hedwig è reale, in tutto. Definito dal regista John Cameron Mitchell come musical post-punk o neo glam rock, è forse l’anello di congiunzione tra un discorso sul travestitismo come arte ed uno come denuncia sociale; al suo interno il travestitismo è tessuto narrativo, simbolo di ricerca artistica ed umana. Ma chi è Hedwig? Hedwig (interpretata dallo stesso John Cameron Mitchell) è una stratificazione di storie, sentimenti e aspettative. Cresciuta nella Germania dell’Est, per amore decide di cambiare sesso e di trasferirsi in America, trascinando il suo corpo martoriato dall’operazione in un’ossessiva ricerca della sua parte mancante. Hedwig è la “cantante universalmente sconosciuta” degli Angry Inch. La sua carriera musicale è un mezzo di riscatto e gratificazione, un canale di sopravvivenza e rinascita. Ma ecco che quell’unico elemento di vita verrà intaccato dalla vendetta, dall’ossessione, da una morbosità che ne faranno solo una trappola. Le musiche, bellissime, di Stephen Trask, sono eseguite live (gli Angry Inch esistono veramente) e con le loro sonorità ora folk, ora punk, ora rock, ora profondamente melodrammatiche – quasi liriche – ci raccontano tutta la storia di Hedwig.
Capiamo come l’amore, la realizzazione artistica e personale siano i nuclei attorno cui si annoda e si svela tutto. È un labirinto in cui Hedwig si perde e si rincorre, in cui ogni riferimento e speranza sembra venire meno. In questa corsa ci ritroviamo dentro ad una vita che si compone a più strati e che verrà narrata a spezzoni, ricordi, flashback. A ricoprire tutto il travestitismo. Le sue modalità espressive sono quelle delle drag queen – con la loro trasgressiva brillantezza di strass e perline e le pellicce di coniglio – del cinema queer, del camp, del punk-rock. C’è una forte riflessione sociale che riguarda il contesto omo-transessuale e c’è anche una importante urgenza personale: quella di rintracciare la propria identità, quella, di nuovo, di essere sé stessi. Tutti questi elementi andranno così a comporsi come i tasselli di un mosaico e daranno vita ad un’opera di grande sentimento ed apertura. Hedwig attraverserà un inferno dal quale uscirà profondamente cambiata, soprattutto nel suo travestitismo, divenuto ormai solo un velo protettivo, ma troppo stretto, asfissiante. L’ultimo pezzo del musical, intitolato Midnight Radio, ci parla proprio di questo:
Breathe feel love
Give free
Know in your soul
Like your blood knows the way
From your heart to your brain
Knows that you’re whole
Ho visto Hedwig tante volte ed ogni volta mi rivela un elemento nuovo. E se è vero che i cosiddetti deviati sono i veri agenti della cultura, coloro cioè da cui provengono gli stimoli che permettono il continuo cambiamento del nostro sistema di riferimento culturale, allora che ben vengano parrucche e strascichi, che ben vengano spettacoli come quello di Hedwig. Un musical vero, svezzante, divertente, profondo ed arguto, innovativo e coraggioso. Insomma, una cura per la ristrettezza mentale.