“Capitalism: a love story” non è il film più importante di Moore dal punto di vista formale, ma forse lo è a livello sostanziale; in un unico pamphlet audiovisivo, Michael Moore può fotografare la madre di quelle ingiustizie affrontate nei documentari precedenti, come il mercato della violenza di “Bowling for Colombine” e l’iniquo sistema sanitario a stelle e strisce di “Sicko”, tale mostro si manifesta nella cultura del profitto, della prepotenza del forte sul debole, del ricco sul povero, in una parola: il capitalismo. L’occasione di guardare in faccia il peccato originale la dà la crisi di Wall Street degli ultimi mesi, improvvisamente il capitalismo non appare più il migliore dei mondi possibili, e addirittura un terzo degli americani prova improvvisamente simpatia per quello che un tempo, nella terra dei Canyon, era una bestemmia, la più terribile: socialismo. Ma Moore era pronto al suo definitivo viaggio al centro della Terra? Per me no. Se la sua verve appare intatta, meno informa mi sembra la sua visione d’insieme, la capacità di associare elementi apparentemente distanti tra loro, abilità che si palesa in maniera cristallina solo nell’assurdo racconto del giudice Mark Ciavarella e dell’istituto di detenzione minorile (privato) PA Child Care. Forse troppo materiale per due ore di documetario, e almeno una (inspiegabile) forzatura retorica, quella in cui l’autore sostiene che gli americani in Italia (ma anche in Germania e Giappone), avessero scritto la Costituzione nel ’47*, argomento usato per mostrare il paradosso per cui all’estero venivano concessi dei diritti che in madrepatria non venivano neanche presi in considerazione.
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*Se si accetta l’ipotesi che la Democrazia Cristiana fosse fortemente influenzata dagli Usa, c’è da considerare che quasi il 40% dell’Assemblea Costituente era rappresentato dall’asse comunista-socialista, la cui manovrabilità da parte della Cia era alquanto improbabile.
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“Capitalism: a love story” non è il film più importante di Moore dal punto di vista formale, ma forse lo è a livello sostanziale; in un unico pamphlet audiovisivo, Michael Moore può fotografare la madre di quelle ingiustizie affrontate nei documentari precedenti, come il mercato della violenza di “Bowling for Colombine” e l’iniquo sistema sanitario a stelle e strisce di “Sicko”, tale mostro si manifesta nella cultura del profitto, della prepotenza del forte sul debole, del ricco sul povero, in una parola: il capitalismo. L’occasione di guardare in faccia il peccato originale la dà la crisi di Wall Street degli ultimi mesi, improvvisamente il capitalismo non appare più il migliore dei mondi possibili, e addirittura un terzo degli americani prova improvvisamente simpatia per quello che un tempo, nella terra dei Canyon, era una bestemmia, la più terribile: socialismo. Ma Moore era pronto al suo definitivo viaggio al centro della Terra? Per me no. Se la sua verve appare intatta, meno informa mi sembra la sua visione d’insieme, la capacità di associare elementi apparentemente distanti tra loro, abilità che si palesa in maniera cristallina solo nell’assurdo racconto del giudice Mark Ciavarella e dell’istituto di detenzione minorile (privato) PA Child Care. Forse troppo materiale per due ore di documetario, e almeno una (inspiegabile) forzatura retorica, quella in cui l’autore sostiene che gli americani in Italia (ma anche in Germania e Giappone), avessero scritto la Costituzione nel ’47*, argomento usato per mostrare il paradosso per cui all’estero venivano concessi dei diritti che in madrepatria non venivano neanche presi in considerazione.
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*Se si accetta l’ipotesi che la Democrazia Cristiana fosse fortemente influenzata dagli Usa, c’è da considerare che quasi il 40% dell’Assemblea Costituente era rappresentato dall’asse comunista-socialista, la cui manovrabilità da parte della Cia era alquanto improbabile.
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