di Pierangelo Dacrema (*)
Può, l’economia, essere pane per la psicanalisi? Certo. Frutto dell’incantevole collegamento tra corpo e cervello, l’economia è pensiero tradotto in azione. E un cervello prigioniero di un corpo, che implica un corpo prigioniero di un cervello, è proprio materia da psicanalisti.
Un circolo virtuoso: Bloomsbury
Nel 1914 avviene il primo contatto tra Freud e Bloomsbury, il quartiere di Londra da cui prende il nome la singolare comunità di intellettuali che ha visto eccellere Virginia Woolf ed Edward M. Forster nel romanzo, Duncan Grant e Vanessa Bell nella pittura, Roger Fry e Clive Bell nella critica d’arte, Lytton Strachey nella biografia e nella storia, Desmond McCarthy nella critica letteraria, Leonard Woolf e J. M. Keynes nella politica e nell’economia. Keynes cita Freud nel terzo capitolo del suo folgorante Le conseguenze economiche della pace, quando traccia un ritratto dei protagonisti della Conferenza di Versailles e ci racconta di uno speciale complesso freudiano del presidente Wilson.
Freud era lettore attento di Lytton Strachey oltre che di Keynes. E Keynes si servì abbondantemente di Freud per la stesura del Trattato della moneta e della Teoria generale. Che cosa accomuna Freud e Keynes? Molto più della condivisione dell’idea che quella dell’artista fosse l’attività più luminosa e importante di tutte. Keynes, infatti, fu esplicito nel parlare del genio di Freud, della sua immaginazione scientifica e della forza rivoluzionaria delle sue teorie: in altre parole, fu chiaro nell’attribuire allo scienziato viennese le doti che attribuiva a se stesso.
Il pensiero di Freud e quello di Keynes sono i protagonisti assoluti di Capitalismo e pulsione di morte, (trad. A. Bracci Testasecca, La Lepre edizioni, 2010) un libro stringato ma molto denso, ben più articolato delle sue dimensioni. Perché mai Gilles Dostaler, storico dell’economia, e Bernard Maris, l’economista assassinato durante l’attentato alla sede di Charlie Hebdo, sono sicuri di poter asserire che lo spirito del capitalismo è pervaso da un senso di morte? Semplice, perché la pulsione di morte è ovunque: c’è sadismo e istinto di distruzione nell’eros, c’è erotismo nell’istinto di morte, c’è pulsione di morte nell’arte, nella cultura, nella creazione.
Ma nel fatto economico troviamo aggravanti, accentuazioni. Da un lato è sotto gli occhi di tutti la “vecchia” economia libidinale, il dirottamento sistematico della libido verso la produzione, alla ricerca spasmodica della sua massimizzazione. Dall’altro c’è il denaro, materia incandescente, infernale. L’uomo combatte instancabilmente la morte attraverso la propria pulsione di morte. Dietro l’abitudine al lavoro esiste un insopprimibile istinto del gioco. E il lavoro, questo passatempo obbligato, è la valvola di sfogo del corpo, della carica libidica dell’Io. Si lavora per vivere, si vive per lavorare, si finisce per tesaurizzare. Il tesaurizzatore è un uomo profondamente angosciato. Keynes lo sa, e stabilisce un rapporto preciso tra l’angoscia, la pulsione di morte e il tasso d’interesse.
Un desiderio perverso di liquidità
La liquidità è specchio del nostro timore del futuro, delle nostre incertezze, della precarietà di ogni cosa. Il possesso di moneta lenisce le nostre inquietudini. Che cosa può indurci a separarcene? L’interesse, il cui tasso diventa così la perfetta misura della nostra inquietudine. L’economia classica vedeva nel tasso d’interesse una ricompensa dell’astinenza.
Keynes vi riconosce invece una misura della rinuncia alla liquidità, un prezzo per l’allontanamento dal calore rassicurante del denaro, la contropartita per la temporanea separazione dalla bacchetta magica che ravviva la speranza e placa la paura,, lo scudo d’oro a cui si è dedicato tanto tempo, prima per costruirlo e poi per rafforzarlo, continuare a lucidarlo. Ma un mondo di accumulatori di denaro ucciderebbe l’economia. Se tutti preferissero il possesso di moneta nessuno più investirebbe e si creerebbero i presupposti per la trappola della liquidità descritta da Keynes, il buco nero dell’incertezza in cui perfino il denaro diventerebbe impotente, incapace di allontanare lo spettro della recessione e del collasso del sistema.
In questo senso, e alla luce della situazione attuale, Keynes potrebbe andar fiero della sua preveggenza. Un mondo obnubilato dal denaro è pericoloso, e anche losco. La crisi dei subprimes, le agenzie di rating che hanno accreditato prodotti finanziari derivati indecifrabili, derivati finanziari che avevano il compito di gestire l’angoscia e che invece l’hanno acuita, le banche americane che hanno inondato il mercato di credito creando il caos, le banche centrali che hanno inondato i mercati di base monetaria senza alcun risultato: tutti elementi che tradiscono una bulimia di liquidità con effetti disastrosi.
Più degli scandali dello sperpero e dei fallimenti bancari colpisce lo scandalo della disoccupazione, dell’accumulo di fortune colossali da parte di pochi a fronte della povertà estrema di molti, dello stravolgimento dei rapporti umani non più leggibili all’insegna della cooperazione o dello sfruttamento, della sottomissione o della fratellanza ma sotto l’egida inaccettabile della disumanità e dell’immoralità.
La rendita è morta o continua a uccidere?
Keynes aveva predicato l’eutanasia del redditiere perché la rendita erode non solo i salari ma anche i profitti, soffoca piano piano l’imprenditore oltre che i suoi dipendenti. E non è così fuori luogo immaginare che la nostra economia possa produrre la catastrofe di un mondo ridotto a una gigantesca bidonville in cui la moltitudine a malapena sopravvive e un’esigua minoranza di redditieri si appropria di tutto il surplus. Smettere di crescere a tutto vantaggio di pochi, troppo pochi? Ma la fine della crescita, lo stato stazionario, somiglia drammaticamente alla morte, al coma irreversibile. Nulla più di nuovo che accade, che si sia capaci o desiderosi di far succedere. Possibile che gli uomini se ne accontentino?
Eppure Keynes aveva dichiarato la sua aspirazione a questo stato stazionario, una condizione in cui sarebbe cessata la corsa al denaro e gli esseri umani avrebbero finalmente coltivato l’arte di vivere. Un secolo ancora sulla strada sbagliata per poi trovare la via giusta, un periodo abbastanza lungo di politiche monetarie – ovviamente keynesiane, tutte fondate sulla capacità taumaturgica della moneta – per poter dare uno stabile, definitivo benessere all’intero pianeta. Usare il denaro, la sua potenza, per arrivare a dimostrarne la sostanziale inutilità, o che comunque si possa farne a meno. E questo Keynes non si era limitato a fantasticarlo, ne aveva fatto oggetto di una previsione “tecnica” – quella del suo noto saggio “Prospettive economiche per i nostri nipoti” – destinata, a suo dire, ad avverarsi oggi, nella nostra epoca. Come mai la previsione di un uomo pur così abile nei pronostici si è rivelata clamorosamente sbagliata?
Freud aveva capito che la fame di denaro riesce a canalizzare le più sadiche pulsioni degli uomini, in qualche modo contenerle, dirigerle, tradurre in esiti relativamente innocui ciò che potrebbe trovare sbocchi drammatici e crudeli. La libido può avere manifestazioni molto aggressive, induce spesso a umiliare, ferire, persino uccidere. Meglio un capro espiatorio, il denaro, appunto. Da notare come la diagnosi fosse condivisa da Keynes. Ma a questo punto il suo errore. Egli, di fatto, ha ritenuto che certi vizi e difetti molto radicati degli uomini – gli istinti poco edificanti indagati da Freud – li si potesse correggere, sanare fino quasi a dimenticarseli in un arco di tempo limitato. Per questo la profezia di Keynes di un uomo che cessa di rincorrere il bene fatuo della ricchezza materiale somiglia all’utopia di Marx di una società senza classi fatta di individui che, dopo qualche ora di lavoro, si sentono liberi di dedicarsi alla caccia, alla pesca e all’arricchimento dello spirito. E allora?
Economia del tempo presente
Allora il libro di Gilles Dostaler e Bernard Maris si presenta non solo come un efficace strumento di riflessione ma diventa anche un modo per trasformare Freud e Keynes in testimoni vividi del nostro tempo. La lezione principale è che è lecito sperare in un miglioramento, non in una panacea. Gli uomini continueranno a lavorare per vivere, a vivere per lavorare, a voler cambiare per crescere, evolversi e assecondare la loro voglia di assomigliare a Dio. Ma in economia qualcosa di nuovo potrebbe accadere. Gli uomini, molti uomini, potrebbero continuare a voler arricchirsi fino alla nausea.
Ma il capro espiatorio – lo scudo, l’oggetto della maniacale attenzione – potrebbe diventare la proprietà, il possesso delle cose tangibili, non più del denaro. Parlo della proprietà e del potere che ne deriva sulle cose e sulle persone, parlo del cuore del capitalismo e della salvaguardia della sua essenza. E il tutto affinché non esploda una violenza e una distruzione peggiori di quelle imputabili al meccanismo capitalistico.
Il prezzo pagato dal capitale per conquistarsi questa forma di sopravvivenza? La rinuncia al denaro – alla sua parte più cruda e più becera, la merce “esclusa” – combinata con la gratuità di tutti i beni messi sul mercato da chi, in termini di proprietà e di relative responsabilità, potrebbe tranquillamente continuare ad arricchirsi e a sfiancarsi di lavoro per riuscirvi. Ricchi costretti a una distribuzione più generosa e diffusa dei frutti del capitale, poveri finalmente, e legalmente, ammessi alla fruizione di una parte cospicua dell’enorme frutto del capitale e del lavoro. Un compromesso ragionevole, almeno per ora.
(*) Pierangelo Dacrema è Professore Ordinario di Economia degli Intermediari Finanziari presso l’Università della Calabria ed è stato, parecchi anni fa, Professore di “Tecnica Bancaria I” presso la facoltà di Scienze Economiche e Bancarie dell’Università di Siena.
Fonte: sinistrainrete.info