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CAPODOGLIO, o il naufragio della baleniera Essex

Creato il 24 ottobre 2013 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

Essex_photo_03_bdi Riccardo Alberto Quattrini.  Grandi, enormi, giganteschi, nuotavano affiancati per qualche braccio di mare per poi tuffarsi nell’oceano e riapparire dopo un tempo interminabile, uscendo dall’acqua con una foga come a vo-ler riprendere fiato, per poi abbattersi con fragore sull’acqua schiumosa, gettando un altissimo spruzzo dallo sfiatatoio che si scorgeva a chilometri di distanza. Questo era ciò che vedevano da anni gli abitanti di Nantucket, un’isola degli Stati Uniti d’America a forma di Mezzaluna, a 48 km a sud di Capo Cod, circondata dalle acque dell’Oceano Atlantico. Per generazioni li avevano osserva-ti mentre si pascevano tranquillamente nell’oceano, e loro a spaccarsi la schiena su una terra erbosa buona solo per l’agricoltura e la pastorizia. Così, complice il troppo e indiscriminato uso della terra, ben presto si esaurì la fertilità del suolo. Verso il 1726, gli uomini di Nantucket gettarono in mare alcune grosse barche e andarono a catturare il loro primo capodoglio, modificando così la loro fonte di profitto. Era iniziata la caccia alle balene a Nantucket: lo sperm whale, così chiamato dagli ingle-si, è l’olio prezioso contenuto nella scatola cranica che servì a illuminare alcune tra le principali ca-pitali europee per oltre un secolo.

Da quel giorno, l’isola non sarebbe stata più quella di un tempo. Se dapprincipio le barche non permettevano di allontanarsi troppo dalle coste, si dovette aspettare fino al XVIII-XIX secolo per vedere le baleniere come molti pittori e scrittori, Melville ne è l’esempio, le avevano immortalate all’apogeo dell’età della caccia. Inizialmente erano imbarcazioni a un solo albero, chiamati sloops, i primi dei quali furono armati nell’isola nel 1715. In seguito si passò a imbarcazioni più imponenti, con tre alberi, con una stazza dalle 250 alle 400 tonnellate. La loro caratteristica era la notevole capacità di stivaggio, di contro la rendeva molto lenta. Ora le ba-leniere si spingevano sempre più lontano, fino nelle zone più remote del Pacifico, il cosiddetto Off-shore Ground. I viaggi potevano durare anche tre o quattro anni.

Le donne di Nantucket, rimaste sole per lunghi periodi, instaurarono un regime di matriarcato spe-culare all’organizzazione sociale dei cetacei, dove il capo è una femmina, e i maschi nuotano di branco in branco per accoppiarsi. Tale comportamento era possibile poiché nella loro corteccia anteriore detta cingolata, i neuroni ve-locizzano la comunicazione tra le aree cerebrali favorendo così il comportamento sociale: creazione di legami duraturi, capacità di provare emozioni, gioie e dolori, inoltre si può pensare che essa serva come una sorta di sistema di allarme silenzioso, una volta riconosciuto il conflitto in essere, attiva tale zona per adeguarne la risposta.

Tale scoperta la dobbiamo a Constantin von Economo, un neuroscienziato austriaco che nel 1929 la scoprì, limitandosi a segnalarne, oltre che nell’uomo, anche in certi primati, negli elefanti asiatici e africani. Molto più recentemente, Patrick Hof ed Estel Van Der Gucht, due scienziati, hanno tra-scorso quindici anni a studiare i cervelli dei grandi cetacei: capodogli, balene e delfini. Oltre a quel-lo che già sapevamo, cioè del loro complesso sistema di comunicazione e della sofferenza che pro-vano quando muore un loro simile, i due scienziati, hanno scoperto che anche le balene provino lo stesso tipo di amore degli esseri umani, e che le cellule fusiformi, in questi cetacei, sono presenti nelle stesse aree del cervello che regolano le emozioni, l’organizzazione sociale, l’empatia e l’intui-zione negli esseri umani. In alcune balene poi, il numero di cellule fusiformi sarebbe addirittura tre volte superiore che nell’uomo. L’evoluzione di tali neuroni, pur procedendo da un comune antenato vissuto novantacinque milioni di anni fa, se pur con percorsi evolutivi indipendenti, fornendo prova di un’evoluzione convergente di specie, hanno sviluppato neuroni di funzione affine dove: trenta milioni di anni per i cetacei, quindici milioni di anni più tardi gli ominidi e i primati. Grazie anche a tali neuroni i grandi cetacei modificano i loro comportamenti, per esempio trovano nuove strategie per cercare di sfuggire alla caccia.

Se dapprincipio nei capodogli e nelle balene, un tempo giganteschi ma miti e fiduciose creature, con la caccia intensiva sempre più diffusa, cominciarono a manifestarsi segni di nervosismo all’avvici-narsi dell’uomo, e reazioni aggressive oltre che di semplice fuga, modificando così i loro compor-tamenti, non riunendosi più in piccoli branchi ma in immense mandrie, trovando nuove strategie e spostandosi sempre più verso sud nell’oceano più profondo.

E’ in questo contesto che nel 1820, una vecchia baleniera chiamata Essex, una tre alberi e un bom-presso, dove a ogni albero erano fissati una moltitudine di elementi di alberatura orizzontali chiama-ti “pennoni”, da cui si spiegavano le vele rettangolari che erano più di venti. Vi era tanto sartiame a sorreggere l’alberatura, che osservandola fermi sul ponte e guardando verso l’alto, pareva di scruta-re la tela di un gigantesco ragno. Lunga circa 26 metri con 238 tonnellate di dislocamento, fu al cen-tro di una storia che pare abbia ispirato, almeno nella prima parte, Herman Melville per il suo Moby Dick.

Quindici mesi prima, la mattina del 12 agosto 1819, un giovedì, quando la baleniera Essex lasciava il porto di Nantucket e si dirigeva al largo. La comandava un giovane capitano di ventotto anni, Ge-orge Pollard jr, fresco di nomina. Come un gigantesco anaconda predatore, la baleniera risaliva pigramente la costa occidentale del Sudamerica, serpeggiando su un vivente mare d’olio e di sangue. Perché l’Oceano Atlantico nel 1821 era proprio questo, un immenso campo di depositi di olio a sangue caldo, appartenuto ai capo-dogli. Dopo aver faticosamente doppiato Capo Horn, la baleniera Essex si spinse al largo del Pacifico ver-so rotte inesplorate. Era il 20 novembre 1820 quando, a più di 1500 miglia nautiche a ovest delle Galapagos, dopo aver viaggiato per più di tre mesi, la vedetta gridò a un tratto sopra la coffa: e lo indicò col braccio teso. Era necessaria una vista acuta per notare lo zampillo: una tenue nuvoletta bianca sul lontano orizzonte che durava qualche secondo. Il comandante non aspettava altro. Su suo ordine fece calare subito tre lance che si lanciarono immediatamente all’in-seguimento del branco di capodogli. Lì per lì, un gigantesco capodoglio, che gli uomini giudicarono più lungo di ventisei metri, emerse a un centinaio di metri dalla nave, fu subito preso di mira dagli uomini della Essex, ma questi, inaspettatamente passò sorprendentemente al contrattacco, con la sua coda larga più di sei metri, ribaltò una delle lance. Poi cominciò a muoverla sempre più velocemen-te per acquisire velocità, finché le onde non formarono delle creste attorno alla sua enorme testa ci-lindrica e la coda che martellava l’oceano in una scia impetuosa ampia più di dodici metri. Era di-retto verso la fiancata di babordo dell’Essex. L’orrore dell’equipaggio nel vedere la preda trasfor-marsi in cacciatrice, animata dal desiderio di vendetta, creò uno scompiglio e l’incredulità dei mari-nai che si domandarono come fosse possibile che una creatura innocua e mansueta, esca dal branco, dove sono state colpite le sue compagne e aggredisca intenzionalmente la baleniera, quasi a vendi-carne l’offesa. Eccolo, infatti, un attimo dopo a pochi metri dalla murata, che colpì accanto alla ca-tena dell’ancora di ormeggio, a prua. Dopo la collisione, l’enorme capodoglio passò sotto la nave, colpendo lo scafo con tanta violenza da spaccare la sottochiglia. Virò poi sottovento allontanandosi di circa seicento metri. Poi cominciò ad aprire e serrare di scatto l’enorme mascella e a sferzare l’acqua con la coda. Con l’enorme testa solcata da cicatrici, parzialmente sollevata dall’acqua, con un tremendo scricchiolio di legno che si frantumava, colpì la nave appena sotto l’ancora assicurata al ceppo del babordo prodiero. L’Essex oramai stava affondando inclinata pericolosamente verso dritta. Il gigantesco capodoglio aveva umiliato il suo strano avversario, si districò dalle assi frantu-mate della chiglia rivestita di rame e si allontanò sottovento, sparendo per sempre.

Lo scontro con quel gigantesco cetaceo che aveva affondato la baleniera e decimato l’equipaggio, aveva lasciato solamente ventuno sopravissuti sistemati su tre scialuppe. Invece di andare alla ricer-ca d’isole vicine, forse temendo che fossero abitate da cannibali, si diressero verso le coste del Sud. E’ l’inizio di una terribile odissea, durata settantotto giorni nelle acque dell’oceano. Ridotti allo stremo dalla sete e dalla fame, bianchi o neri, a turno attesero la morte dei compagni per sopravvi-vere, nutrendosi dei loro corpi, iniziando dal cuore: il colore della pelle non aveva più importanza, il gusto delle carni era lo stesso. Erano in ventuno, dopo l’affondamento della nave, su tre scialuppe, alla fine si salvarono in cinque tra cui il capitano Pollard e il primo ufficiale Owen Chase. Questo fu l’unico incidente documentato sul naufragio di navi da parte di balene, ma potrebbe non essere stato l’unico.

Sull’incidente cadde un pietoso silenzio. L’infrazione di un tabù ancestrale per la cultura occidenta-le, così diversa da quella del “cannibale”, causò un grande imbarazzo. “Stato di necessità” fu il ver-detto archiviato dalla legge americana. Ora lo sappiamo, le balene possono comunicare attraverso un ricco repertorio, oltre ad inventarne di nuovi, si alleano e pianificano nuove strategie di caccia che trasmettono ai cuccioli, sono capaci di soffrire, di provare piacere, e forse anche il desiderio di vendetta. Pertanto vengono sempre meno le argomentazioni scientifiche che sostengono che la loro vita vale meno di quella di ciascuno di noi.

BIBLIOGRAFIA:Nathaniel Philbrick “Nel cuore dell’oceano La vera storia della baleniere Essex” Garzanti Libri s.p.a. 2000 ISBN 88-11-66218-4

Featured image, la baleniera Essex in una stampa.

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