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Lubitsch ha tocco. Il tocco di un’artista geniale. Le sue storie sono assurde, imprevedibili, il ritmo è serrato come una ciminiera che sbuffa e rumoreggia da mattina a sera, i suoi caratteri oscillano tra il caricaturale ed il dramma, la stravaganza pazzerella e l’emozionalità rara. Lubitsch ha il tocco di chi riesce a rendere del tutto coerente, quasi sistematica un’opera che non sembra avere alcun margine di organicità. Come detto per “Vogliamo Vivere!”, c’è un primo livello: quello teatrale. Ninotchka risente meno di altri film di questa derivazione; eppure la comicità implicita deriva da alcune delle caratteristiche speculari di un’opera teatrale: l’abbozzo del carattere, che, in realtà, nasconde, nella caricatura, più di quanto potesse esprimere con parole, e la tecnica del ribaltamento. Ninotchka è un ispettore sovietico: occhi all’altezza d’uomo, sguardo incupito, come se soffrisse, appena giunta fuori dalla sua nazione. Parigi, l’amor romantico, il batomouche, i monumenti. Ninotchka non fa neanche caso, osserva attentamente la struttura metallica della Torre Eiffel, è in cerca di argomentazioni tecniche, di invenzioni, di reticoli stradali e di macchinari elettrici, ancora sconosciuti all’ottimale, secondo un’autarchia parossistica, ma pur sempre chiuso al mondo, sistema comunista. Ha una cartina in mano, rumoreggia sull’eccessiva durata del blocco, da semaforo, ai pedoni. Ha lo sguardo serio, per abitudine, più che per reale emotività. Il cuore è sopito, rimane solo il cervello. La critica è lampante, forse meno eccessiva dell’efferatezza sul nazismo firmata Lubitsch, ma è pesantissima, e riguarda sistema economico (una battuta al fulmicotone, circa il cambio degli asciugamani), smantellamento delle forze politiche, creazioni di una dittatura del terrore, processi sommari, trasferimenti in massa. Quando Lèon, il conte che si trova a fare gli interessi della granduchessa Swana e che, per caso, incontra l’ispettore comunista, chiamata a verificare l’azione di tre agenti circa la vendita di preziosi gioielli, le ultime speranze, come fa intendere Lubitsch, per mantenere su il modello comunista, ritenuto già in difficoltà, vuole andare in Russia, per congiungersi con la donna rientrata, si trova di fronte ad una dura realtà: il visto viene rifiutatato, un’unica lettera giunge a Ninotchka, ma è completamente censurata, illeggibile. Si menziona il tradimento, in modo divertito, ma significativo, per l’esito di tale atto e per la naturalezza con cui parlarne. Lubitsch ha classe. Ma, sotto le sue scene profondamente congegnate, buona disposizione delle luci e montaggio, oltre che notevole prospettiva d regia, fa dilagare un cinismo leggero, una critica forte. Lubitsch crea dalla Storia e ne offre un’interpretazione che è comicità pura, non satira, ma sottotesto, allusione, caricatura “reale”. La difesa del capitalismo è più una scelta romantica che di partito, di emozione che di ragione. E’ più una difesa di un stile di vita che di un’ideologia. “La Garbo ride!”, slogan preideativo, e fa ridere, bravissima anche nella commedia. L’attrice che meglio ha saputo coniugare il suo status di mito con la sua bellezza pura, senza vergognarsi di essere anche una donna fantastica. Particolare menzione a Melvyn Douglas, occhio che spacca e a Ina Claire. Ma un gran merito va alla sceneggiatura, e spunta un nome famigliare, Wilder. Ninotchka è una vodka ghiacciata che, bevuta d’un sorso, riscalda e brucia quasi per la sua irriverenza e sottigliezza.
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