Tuttavia l’aspetto a mio avviso più interessante dell’opera non è tanto la coerenza formale di Mendoza, quanto il processo di storicizzazione che ha effettuato lavorando su un episodio di cronaca realmente accaduto. In sostanza Mr. Brillante ha il merito di aver portato a galla attraverso il cinema un fatto tragico ma esplicativo di come la jihād ha, ed abbia avuto, contorni liquidi e pandemici, se poi pensiamo che il periodo storico in cui il gruppo di terroristi sequestra i turisti è appena antecedente all’attentato delle Torri Gemelle, allora la storia si fa quasi documento antropologico che ci mostra gli albori di un movimento che attualmente ha messo sottoscacco gran parte dei paesi cosiddetti civilizzati, e nel commando di Mendoza, non so se volutamente o meno, ma certe volte impacciato o per meglio dire impreparato alla guerriglia, rintracciamo alcuni capisaldi universalmente riconosciuti dell’islamismo terrorista, e quindi fanatismo religioso, arricchimento attraverso il riscatto degli ostaggi, sovvenzioni belliche per conto di individui arabeggianti. Ma in tutto ciò il cinema c’entra poco, perché difatti in Captive il cinema latita. È vera la persistenza di un discorso protrattosi di film in film fino a quello sotto esame, ma al contempo l’allontanamento di Mendoza dal centro della sua carriera, quella povertà di tutto (materiale e spirituale) delle Filippine, fa sedere il proprio lungometraggio in un’area che, appunto, ha valore perlopiù nel campo informativo, mentre in quello dello spessore artistico si poteva fare meglio. A prescindere dalla struttura di Captive che è schematicamente ripetitiva (una volta effettuato il rapimento vediamo l’alternanza tra sommosse dell’esercito di Stato e noiosette interazioni ostaggi/aguzzini), è proprio quell’impianto realistico a giocare contro Mendoza e a non poter ambire a null’altro che il “coinvolgimento”, perché mi pare chiaro, adesso, che tale approccio non avendo dentro di sé i connotati per lavorare in profondità è obbligato ad operare sull’orizzontalità degli eventi, sulla loro immediatezza, appena si tenta un accenno che procede in parallelo si rischia la frittata (la stigmatizzazione della dicotomia vita/morte con l’assalto in ospedale e la nascita, ovviamente reale, di un neonato), sicché non rimane che l’apparato cronachistico nel quale non possiamo entrare, né lui può entrare dentro di noi. Ecco il punto: Captive non ci permette di compenetrarci a vicenda, semplicemente perché non è in grado di farlo.
Tuttavia l’aspetto a mio avviso più interessante dell’opera non è tanto la coerenza formale di Mendoza, quanto il processo di storicizzazione che ha effettuato lavorando su un episodio di cronaca realmente accaduto. In sostanza Mr. Brillante ha il merito di aver portato a galla attraverso il cinema un fatto tragico ma esplicativo di come la jihād ha, ed abbia avuto, contorni liquidi e pandemici, se poi pensiamo che il periodo storico in cui il gruppo di terroristi sequestra i turisti è appena antecedente all’attentato delle Torri Gemelle, allora la storia si fa quasi documento antropologico che ci mostra gli albori di un movimento che attualmente ha messo sottoscacco gran parte dei paesi cosiddetti civilizzati, e nel commando di Mendoza, non so se volutamente o meno, ma certe volte impacciato o per meglio dire impreparato alla guerriglia, rintracciamo alcuni capisaldi universalmente riconosciuti dell’islamismo terrorista, e quindi fanatismo religioso, arricchimento attraverso il riscatto degli ostaggi, sovvenzioni belliche per conto di individui arabeggianti. Ma in tutto ciò il cinema c’entra poco, perché difatti in Captive il cinema latita. È vera la persistenza di un discorso protrattosi di film in film fino a quello sotto esame, ma al contempo l’allontanamento di Mendoza dal centro della sua carriera, quella povertà di tutto (materiale e spirituale) delle Filippine, fa sedere il proprio lungometraggio in un’area che, appunto, ha valore perlopiù nel campo informativo, mentre in quello dello spessore artistico si poteva fare meglio. A prescindere dalla struttura di Captive che è schematicamente ripetitiva (una volta effettuato il rapimento vediamo l’alternanza tra sommosse dell’esercito di Stato e noiosette interazioni ostaggi/aguzzini), è proprio quell’impianto realistico a giocare contro Mendoza e a non poter ambire a null’altro che il “coinvolgimento”, perché mi pare chiaro, adesso, che tale approccio non avendo dentro di sé i connotati per lavorare in profondità è obbligato ad operare sull’orizzontalità degli eventi, sulla loro immediatezza, appena si tenta un accenno che procede in parallelo si rischia la frittata (la stigmatizzazione della dicotomia vita/morte con l’assalto in ospedale e la nascita, ovviamente reale, di un neonato), sicché non rimane che l’apparato cronachistico nel quale non possiamo entrare, né lui può entrare dentro di noi. Ecco il punto: Captive non ci permette di compenetrarci a vicenda, semplicemente perché non è in grado di farlo.