Vive a San Marco in Lamis, in provincia di Foggia, un paese che conosco grazie alle opere di un amico che vive a Lucca e che nacque proprio lì tanti anni fa, Dino La Selva, ora medico in pensione, figlio di Giovanni, che fu prefetto anche di Lucca, letterato pure lui (tradusse “I fiori del male” di Baudelaire). Chi sa se Gravino, molto più giovane, non lo abbia conosciuto in occasione dei suoi ritorni al paese, di cui ha molto narrato (“Fiabe di Capitanata” e “Racconti minimi di San Marco in Lamis e dintorni”, ad esempio).
Anche nel romanzo di Gravino si narra del ritorno al paese natale del protagonista Marco in occasione della morte della nonna aterna. È inverno, fa freddo, cade la neve: “Il vento faceva vibrare i vetri degli alti balconi e vi attaccava sopra schegge di nevischio.” Niente di più naturale abbandonarsi ai ricordi, srotolare la memoria. È ciò che accade a Marco, un uomo di successo che però ora è turbato dai rimorsi di non aver curato come doveva l’affetto che la nonna nutriva per lui.
L’autore racconta con una scrittura quieta, rotonda e mai superflua: “La notte incuteva timore alla nonna; lei apparteneva a un tempo nel quale l’oscurità era popolata di presenze misteriose, che calavano nella valle dai più nascosti dirupi delle montagne per vagare tra le stradine del paese e mischiarsi alle mille ombre dipinte dal chiarore della luna.”
La memoria può colmare la solitudine, ma nello stesso tempo, allorché appare, registra una ferita, una sconfitta, una resa. Ancor più se essa ci afferra nel momento in cui il confronto della nostra vita è con la morte. Essa misura il nostro coraggio o la nostra vigliaccheria. Ci mette a nudo.
Le immagini del passato, pur suggestionando la mente, nel fare il bilancio della nostra esistenza ci invitano a saldare il conto, ad interrogarci e a scoprirci. Nel confronto con la morte non può esistere l’ipocrisia: “Ero partito lasciando troppe storie senza un epilogo, ed era inevitabile che esse mi avessero atteso pazientemente per tutti quegli anni, tenute vitali come da uno spirito di vendetta, come se fossero sopravvissute solo per saldare il conto.”
Attraverso la morte della nonna, il protagonista imprime ai suoi ricordi la malinconia di una incompiutezza che ne restituisce fragilità ed evanescenza. Solo la nonna raggiunge la solidità di una compiutezza che si porta fin dentro la propria morte: “Uscii con lo strano pensiero di invidiare un po’ la nonna: ora mi sembrava chiaro il significato della morte, era realmente il passaggio in una dimensione che le consentiva di ritornare al proprio tempo reale, agli affetti e alla gente che avevano popolato i suoi anni.”
Non riesce a sapere nulla del suo amico di infanzia, Stefano, che si è appartato dal mondo.
È pensando anche a lui che comincia la resa dei conti. Il ritorno al paese è il ritorno al principio del cammino. Il vecchio prete con il quale aveva discusso tante volte da ragazzo, è di nuovo il suo interlocutore spietato. Marco è un uomo importante, un intellettuale e un politico stimato. Che cosa ha fatto per gli altri? Ha perso la sua rettitudine? La nonna lo trovava cambiato.
Fare i conti con se stesso è farli anche con Dio, affrontare il suo mistero. Dio è sempre dentro le azioni degli uomini.
Gli dice il prete: “Non metterti contro quello che sei, stai soffrendo inutilmente.”
Sono le contraddizioni insite in ogni uomo a generare la sofferenza. Dio non ci ha creati per farci godere la felicità senza il sacrificio. Solo dentro la morte è possibile prenderne possesso, come ne ha preso possesso la nonna.
Ma non solo: il ricordo della sofferenza del padre, morto di un male, la sua consapevolezza di andare incontro alla morte, la serenità con cui l’accoglie, rievocano la dolcezza di un transito che rasserena e ci conduce nel mistero di Dio, un Dio imperfetto (che ha “un bastone troppo corto, se finiva sempre per colpire solo chi gli era vicino.”), che ci ha lasciati soli, ma che sa accoglierci e donarsi a noi. Il paesaggio innevato che ricorre spesso nel romanzo ha una qualche colleganza con la metamorfosi che attraverso la morte ci consegna alla purezza dell’Aldilà.
L’amico Stefano trae la sua sofferenza dalle delusioni della vita. Marco riesce a trovarlo e si confidano. Aveva tanti ideali da realizzare, da giovane era un leader dal grande futuro, immerso fino al collo nelle ambizioni del ‘68; voleva contribuire a migliorare il mondo. Ora lo fugge. Si sente sconfitto: “Sai, sto solo pagando le conseguenze di scelte sbagliate.” Passa le sue giornate chiuso in casa, davanti al televisore. La moglie lo compatisce: “Stefano era rimasto prigioniero del suo passato, di quando tutti gli riconoscevamo il diritto di farsi strada più di ognuno di noi.” È la figura più tragica del romanzo. E dimostra quanto gli ideali possano influenzare nel bene e nel male la vita dell’uomo: “Gli uomini, quando non riescono a recitare il ruolo per il quale credono di essere destinati, possono solamente limitarsi a impazzire.” Stefano sta correndo pure lui, forse inconsapevolmente, incontro al solo appuntamento che non tradisce, quello con la morte rigeneratrice: “Sapessi quante volte me la sono presa con Dio per avermi dato queste qualità.”
Marco si sente un po’ anche Stefano. Avverte di avergli rubato un destino che avrebbe dovuto appartenere più all’amico che a lui stesso.
Il ritorno al paese è un continuo rimescolio della coscienza, una scoperta continua di sé. I tanti ricordi, le tante immagini del passato, sono altrettanti tasselli di un mosaico che non avrà mai fine, da consegnare alla morte, dentro la quale tutto si rasserena e si compone. Per sempre: “Nei lunghissimi tramonti dell’estate, si facevano i crocchi davanti alle case per raccontare dei fatti antichi e pettegolare sulle vicende del paese.
Le madri cullavano i bambini spingendo indietro le sedie per poi lasciarle ricadere pesantemente. In quel movimento, sembravano batacchi di campane senza suono.”
Una discesa interiore, un percorso che si immerge nell’anima: “Un silenzio rotto ogni giorno, quando all’imbrunire si accendevano i lampioni nelle strade e tutti i bambini accompagnavamo l’evento con prolungate urla di gioia, quasi il sollievo per la sconfitta dell’inconscia paura del buio.”
Il passato riaffiora come cerniera verso la conoscenza di sé.
Il romanzo ha un crescendo nella parte finale dedicata alle rievocazioni che restituiscono i colori e i sapori di un’epoca che pare collocata da qualche parte, invisibile, pronta a rimarginare ferite e a recuperare la nostra integrità nel mondo. Vorremmo perfino scacciarlo il passato; nel momento in cui ritorna, anziché accoglierlo, vorremmo liberarcene per sempre: “Temevo però che il passato non si fosse ancora arreso e riuscisse a trovare un pretesto per costringermi a rinviare ancora una volta il viaggio.”
Appare sotto forma di ombre, che non sono più tali, anche se non ce ne accorgiamo: “Stavo incredibilmente cercando il mio passato e mi sentii ridicolo nel rendermi conto di invocare un esercito di ombre dentro scenari che esistevano ormai solo nella memoria.” Quelle ombre sono diventate noi stessi, il nostro presente e il nostro futuro.
Guai a credere che possiamo collocarle fuori di noi. Marco ci prova, si convince di avercela fatta: confida che la memoria resterà rinchiusa nei luoghi del suo passato, “intrappolata nella valle e che solo in quelle ore mi era stato consentito di riprenderla.”; “La nonna diceva che le storie non stanno nella mente degli uomini, ma nei luoghi, e io uscivo dalle storie.”
Ma non si esce dalle storie, non si esce dalla memoria. Il romanzo, ottimamente condotto, tenta di farlo con un’operazione forte e coraggiosa, ma il suo autore sa bene che, proprio con lo scriverlo, vi lega il protagonista per sempre.