Carlo Levi (1902 – 1975), condannato dal regime fascista, ricorda con una scrittura piacevole e dettagliata la sua esperienza di confinato nei paesi di Grassano e Gagliano, negli anni 1935 e 1936. Il racconto dello scrittore piemontese esce dal genere memorialistico, dato che il fecondo contatto con le genti dell'arretrata Lucania, lo porta a svolgere molte considerazioni, tanto che il testo a tratti diventa un saggio storico e un contributo al dibattito sulla questione meridionale. I paesi sono poco collegati tra loro, ci sono frane, le case assomigliano a tuguri; la malaria affligge i contadini ormai rassegnati a vivere in una miseria senza rimedio. Levi è pittore e medico; i malati del posto non si fidano degli altri dottori e chiedono aiuto a lui. Nonostante le grandi difficoltà, il giovane antifascista nota che i miglioramenti si potrebbero avere facilmente, se le autorità svolgessero i propri compiti, facendo profilassi, assistendo i poveri, occupandosi dei corsi d'acqua e in generale del territorio. I contadini vivono tra l'incudine del lontano potere centrale di Roma e il martello delle autorità locali, ciniche, irresponsabili, impegnate in piccole beghe interne. Quanto si decide nella capitale o altrove è sopportato dalla gente con lo stesso spirito con cui si sopporta una calamità naturale; non ha senso opporsi alla grandine o al vento. Ecco alcuni esempi di quello che succede in questi piccoli centri. Quando un nuovo decreto prevede una tassa per chi possiede capre, ai contadini non resta che macellarle non avendo soldi per pagare. Pazienza e silenzio sono il quotidiano dei poveri. Capita che il podestà debba tenere un discorso patriottico in piazza; chi va nei campi sa già che per non perdere la giornata bisognerà alzarsi due ore prima del solito, in modo da essere fuori dal paese prima che i carabinieri blocchino i sentieri per portare la gente ad ascoltare e applaudire parole incomprensibili. Meglio rassegnarsi e questa rassegnazione, misto di malinconia, assenza di speranza, quieto vivere, contagia precocemente anche i bambini, come nota il confinato. L’unica possibile salvezza è partire per il paradiso dell’America; chi però poi torna a Gagliano, rapidamente ricade nella cupa miseria di quelle terre. Levi fa quanto può per alleviare le sofferenze dei malati e finisce per scontrarsi con le autorità che gli vietano di esercitare la professione. Eppure, come detto, poco basterebbe, per migliorare la situazione; per questo ritiene che la classe dirigente locale, parassitaria e oppressiva, abbia enormi colpe. In fondo anche altri scrittori, nel periodo risorgimentale, avevano rilevato i limiti del processo unitario, effettuato senza adeguate riforme sociali. Il garibaldino Cesare Abba si sentì spiegare da un monaco siciliano che l’impresa dei Mille non avrebbe cambiato nulla poiché non prevedeva di scalzare i piccoli oppressori locali, liberando davvero i contadini. Levi nota che senza dirigenti responsabili e adeguate autonomie (l’autore suggerisce forme di federalismo), non c'è prospettiva per una società dove i poveri vengono ingannati dalle persone istruite, non hanno assistenza nonostante ci siano norme che dovrebbero tutelarli, si ammalano e spendono tutto in medicine mentre le terre vanno in malora. Lo scrittore cerca di lottare contro il clima di noia e di torpore che si respira nei borghi isolati e che induce a non credere che ingiustizie secolari possano essere rimosse. Eccolo in un momento di apatia:
"L'eterno ozio borbonico si stendeva sul paese, costruito sulle ossa dei morti: distinguevo ogni voce, ogni rumore, ogni sussurro, come una cosa nota da temi immemorabili, infinite volte ripetuta, e che infinite altre volte sarebbe stata ripetuta in futuro. Lavoravo, dipingevo, curavo i malati, ma ero giunto a un punto estremo di indifferenza. Mi pareva di essere un verme chiuso in una noce secca".
C'è anche una vivace attenzione "sociologica" per questo mondo che vive di credenze antiche, superstizioni, magia (peraltro riscontrabili anche in realtà del Nord, come racconta Nuto Revelli nel suo Il mondo dei vinti). In questi luoghi la modernità si è appena affacciata. Molte credenze hanno un sapore pre-cristiano; ad esempio la sua domestica non spazza la sera fuori dalla porta per non infastidire l'angelo che veglia la casa sull'uscio e molti contadini gli parlano di vivaci scontri con piccoli spiritelli dispettosi (sarebbero le anime dei bambini morti prima del battesimo). Le descrizioni della cultura locale che il dotto medico di Torino riporta con attenzione e partecipazione sono la parte più pittoresca del libro e affiancano la disanima dei mali e delle storture. La diagnosi del medico su quanto visto è chiara; ma non ha la possibilità di eseguire la terapia e terminato il forzato soggiorno parte non senza tristezza, tra il vivo dispiacere dei "suoi" contadini.