di Nicola Pucci
Carlos Ruiz Zafón. Per come stanno le cose, credo proprio che le presentazioni siano superflue. Da alcuni anni i suoi romanzi fanno bella vetrina di sé nelle librerie di mezzo mondo. Scrive bene, Zafón. Questo è innegabile. Non tanto da guadagnarsi, almeno ad oggi, il Premio Nobel. Innegabile pure questo. Ma la fama internazionale che si è garantita è meritata.
“L’ombra del vento” e “Il gioco dell’angelo“. Due successi editoriali che ho letto in un tripudio di emozioni pur nel diverso sviluppo delle vicende romanzate. Lo stile narrativo dello scrittore spagnolo ha il pregio di catturare e tenere ben salda l’attenzione del lettore fin dalle prime pagine. Ne “L’ombra del vento“, che personalmente si fa preferire per la qualità e per l’intrigo che si sviluppa, la storia si avvia dal Cimitero dei libri dimenticati: Daniel Sempere è il giovane protagonista che involontariamente si trova coinvolto nel susseguirsi di episodi che mescolano passione, sentimento, amicizia, storia, thriller. Zafón ha l’abilità di incastrare nella fitta ragnatela di eventi e personaggi – adorabile a mio giudizio Fermin, mendicante saggio e astuto -, dispersivi a volta ma che si intersecano perfettamente decretando un finale a sensazione, dialoghi ironici, originali, anche ridicoli che danno alla trama il giusto sapore. Altrettanto accattivante e vincente è il palcoscenico del romanzo, la tentacolare e turbolenta Barcellona della prima metà del Novecento, scossa da fremiti nazionalisti, che l’autore riesce a riprodurre con assoluta sapienza fotografica.
Più lineare la trama de “Il gioco dell’angelo“, ovvero le alterne fortune e le rocambolesche peripezie di David Martin, da giovane e promettente giornalista a scrittore-detective perseguitato da un editore misterioso – l’indecifrabile Andreas Corelli -, ricercato dalla polizia barcellonese, amato da due donne agli antipodi. David, per cui “col tempo, la solitudine ti si intrufola dentro e non se ne va più“, David che sfiderà l’azzardo, David che rischierà di scivolare nell’abisso ma che riemergerà e troverà risposta ai dubbi che torturano la sua anima. Il teatro è sempre Barcellona, gotica e tumultuosa, oscura e inquietante, quattrocento e più pagine che si lasciano leggere tutte di un fiato, avvincenti, che si snodano a ritmo battente, forse anche un po’ scontate, ma che promuovo a pieni voti, per la gioia del popolo degli zafoniani. E sono numerosi, credetemi.