Carmelo Bene con crudeltà infinita ‘incidenta’ il corpo, attraverso il guasto della parola e la sincope del gesto, guadagnando il fuori scena, «l’o-sceno», ma provocando, sul versante della fruizione, un effetto comico, come in Nostra Signora dei Turchi, dove le continue cadute dalla finestra di uno dei tanti doppi rivelano un accanimento estenuante contro il soggetto, inducendo il riso per l’inesorabile implacabilità; o come nell’ultima sequenza di Salomè (1972), dove, dopo essersi prodotta nella “danza dei sette veli”, la figlia di Erodiade si scaglia contro il patrigno, Erode Antipa, spellandolo vivo, strappandogli di dosso il viso, mentre il Cristo, tentando l’auto-crocefissione, e constatandone l’impossibilità, giunge a prendersi a martellate sulla testa, pur di “farsi fuori”: nella prima situazione il tragico è sospeso con la serietà del terrore, dell’auto-spavento, mentre nella seconda la crudeltà ostinata che il Cristo s’impone provoca un effetto comico. È in questo doppio fronte, quello dell’opera e della sua fruizione che si nasconde la chiave di volta per comprendere l’epifania dell’immagine “estetica”, una volta neutralizzata quella “artistica”. La nuova immagine si sovrappone alla precedente, destituendola, ma non è un’altra immagine, è la stessa che, in virtù della sparizione dell’autore e di un processo etico avvenuto sul versante della fruizione, acquisisce un’altra significanza e muta, pur mantenendo le stesse fattezze. Si guadagna una dimensione estetica dell’immagine, per cui ciò che prima era l’inevitabile prodotto di una rappresentazione, attraverso il ‘trattamento’ beniano, cambia statuto e diviene autonomo, nella misura in cui annuncia un mondo extra umano. L’angelo della storia, prima succubo del vento del progresso, una volta recise le ali, può finalmente volare, sottraendosi al vortice.
Carmelo Bene diviene, potremmo dire, macchina attoriale-spettatoriale, congedandosi dall’umanità, svanendo nel farsi macchina, e rimettendo all’etica dello spettatore la possibilità di assistere a un miracolo. La questione decisiva, infatti, come già accennato, concerne l’atteggiamento del fruitore che, per evitare la degradazione dell’immagine così faticosamente ottenuta, dovrà assumere un contegno, un pudore, installandosi in un silenzio (senza alcuna valenza religiosa o mistica) che gli consenta di partecipare all’evento miracoloso (ciò che eccede l’ordinario), senza per altro poterne successivamente riferire. Il miracolo o si dà una volta per tutte, o ogni volta – attraverso il singolo giudizio riflettente (universalizzante) di ciascun individuo della comunità – purché non si prostituisca, divenendo l’ennesimo intrattenimento ordito a uso e consumo dello spettacolo delle ‘masse di perdizione’. È chiaro che ciò verso cui mira questa critica consiste nel tentativo di tracciare un futuro anteriore in cui tutti possano, a differenti altezze, volare, in cui il miracolo accada ogni volta; Bene, svanendo, abdicando al ruolo d’autore-attore, s’incorpora alla moltitudine degli spettatori: il triangolo autore-opera-fruitore è definitivamente spezzato nell’indiscernibilità di un insieme aperto in cui i tre elementi si mescolano, e ciò che precedentemente era congelato nei rigidi ruoli assegnati dall’eccezione del comando capitalistico si ritrova, liberato, in una gioiosa indistinzione, per cui la “città terrena” già sarà stata “il paradiso in terra”. Si scampa la definitiva secolarizzazione della comunità intesa come realizzazione di un totalitarismo tecnologico, in quanto l’eccesso pulsa all’interno dell’ordine simbolico; al massimo grado di secolarizzazione corrisponde, in maniera direttamente proporzionale, la definitiva liberazione della grazia che, finalmente, diviene accessibile a tutti, purché si ‘resista’ al “fascino discreto” dell’immagine spettacolare. E non si precipita in una posizione mistica, «che tende ad abbandonare la rappresentazione per diventare vita comunitaria e ascetica» (Deleuze, da Un manifesto di meno. Bene – Deleuze, Sovrapposizioni, 1979), in quanto l’immediata traduzione dell’eccesso nell’immanenza configura un’ontologia liberata definitivamente dal ‘segno’. Diviene possibile, quindi, prodursi in interpretazioni, senza scivolare in prospettive psicanalitiche, marxiste, o brechtiane.
Ma torniamo al cinema (che non abbiamo mai perso di vista): un altro carattere saliente è sicuramente riscontrabile nel montaggio che, implacabile, frammenta forsennatamente gran parte dell’opera di Bene. In Salomè e in Don Giovanni le oltre quattromila inquadrature lavorano contro la dimensione cronologica del tempo, oltre a predisporre la sincope del gesto che, continuamente interrotto, si rivela essere costantemente a vuoto. «Una serie infinita di fotogrammi, alla pari del “fermo” fotogramma singolo, mi coinvolge nella ripetizione-differenza senza concetto (non è lo stesso a ritornare, è il divenire che è uguale allo stesso che ritorna)»: così C. B. riferisce il proprio atteggiamento rispetto al dispositivo cinematografico, delucidando la funzione che il montaggio assume nei suoi film. Lo spezzettamento feroce dell’azione innesca il falso movimento della ripetizione-differenza senza concetto, perché ciò verso cui tende l’operazione cinematografica beniana consiste nell’immortalare l’atto che, sottratto alla logica della dimensione edipica del tempo, invece di costituire il risultato della volontà, ne è la premessa. Probabilmente per interpretare correttamente questo passaggio, apparentemente funambolico, bisogna comprendere l’indiscernibilità tra atto e azione: Bene è costretto a metter fuori scena, riducendoli, l’azione, il corpo, il soggetto e quant’altro, ma il suo non è un gesto meramente negativo, piuttosto è la procedura necessaria a diminuire l’eccesiva visibilità dell’immagine “artistica”, quella della rappresentazione, per svelarne il rovescio, l’immagine “estetica”. L’ingenuità da evitare consiste nel credere che la riuscita di questa operazione, promossa dall’autore, coincida con il suo compimento, mentre, in realtà, “l’altra immagine” convive, come virtualità-attualizzata (come rovescio), con quella contestata, ma, ed è questo l’essenziale, spetta al fruitore il compito di vederla, grazie a un’ironia “impietosa”, cioè assumendo un atteggiamento di assoluta rigorosità in fase di visione. L’interazione sul versante della fruizione si rivela decisiva per portare a termine la gestazione dell’imago nova. È come se Bene ci ammonisse furiosamente a distogliere lo sguardo dall’immagine artistica (come in Salomè: «Non bisogna guardarla, tu la guardi troppo») e ci invitasse, al tempo stesso, a osservarci allo specchio, che riflette la maschera, ma anche “l’ombelico” del doppio, e dunque il rovescio. “Il terzo” di cui parla Deleuze è un alludere ad ‘altro’ che rivela ancora un residuo dialettico e di segno, mentre Bene in scena è solo, seppur ‘in compagnia’ del doppio virtuale attualizzato. Anche dal punto di visto tecnico C. B. tenta in tutti i modi, attraverso il montaggio, di “far fuori l’azione”, come in Nostra Signora dei Turchi, in cui le defenestrazioni del protagonista vengono riprese solo all’inizio e alla fine della caduta, eliminando la traiettoria, e quindi la durata.
Tornando a quanto si è detto all’inizio, è interessante notare come Bene abbia individuato in Pierrot le Fou (Il bandito delle undici, 1965) di Jean-Luc Godard un espressione del concetto di “idea di cinema”, per poi, di contro, relegare il regista francese nel “cinema di idee”, dopo la realizzazione di Week-end (1967). In Nostra Signora Dei Turchi non mancano riferimenti a À bout de soufflé (1960): in una delle scene iniziali, Bene fa il verso a Jean-Paul Belmondo, interpretando un gangster a caccia del proprio doppio, il quale, dopo esser stato accoppato, si agita in terra, replicando, in forma di parodia, la sequenza finale del celebre film. In Capricci, invece, mutua, con una buona dose di impertinenza, l’iconografia di Week-end: ci troviamo in un ‘cimitero di automobili”, dove il nostro, in compagnia di Anne Wiazemsky (ex-moglie di Godard), simula, divertito, molteplici incidenti, per poi cercare, una volta catapultato in terra, la postura impossibile per morire.
L’avventura cinematografia di Carmelo Bene si conclude con Un Amleto di meno (1973), dove «il corpo è svanito del tutto» (C. B. ), e i riferimenti letterari sono, oltre a Shakespeare, Amleto, o le conseguenze della pietà filiale, racconto estratto da Moralità leggendarie di Jules Laforgue, Il lamento dello sposo del medesimo autore e, infine, La signorina Felicita ovvero la Felicità di Guido Gozzano. Assai divertente risulta la distorsione del personaggio di Polonio che riferisce, sussurrando, L’interpretazione dei sogni di Freud, nella parte che attiene alle relazioni tra l’Amleto e l’Edipo re di Sofocle. Amleto artista, destinato all’inazione, si diletta col teatro e, invece di vendicare l’assassinio del padre, si trastulla con Kate e uccide Polonio, oltre a causare la morte di Ofelia. La sublimazione che Amleto mette in atto comporta uno spostamento del desiderio, e re Claudio, assassino e fratello del padre, unitosi in matrimonio con la madre del rampollo, ricompensa la mancata vendetta, rimpinguando le finanze del giovane teatrante.
Probabilmente, il cinema di Bene era già finito con Salomè, tant’è che l’Amleto televisivo supera esteticamente il film, e dal 1974 in poi C. B. riprende una massiccia attività teatrale, oltre a produrre un’enorme quantità di opere video e radiofoniche.
Per concludere questa disanima sul cinema di Carmelo Bene, in cui si è tentato di elaborare un’interpretazione che rovesciasse quanto, normalmente, è stato su di esso affermato o scritto, illuminante davvero appare questa dichiarazione del maestro:«Di fronte a un volto paesaggio (o paesaggio d’un volto) filmato, a me spettatore non è concesso nessun potere d’intervento (a meno che, in un secondo tempo, nella mia cameretta, non mi disponga a stilare una esegesi mnemonica, contraffacendo in tal caso la contraffazione di che prima sono stato spettatore)» (da Vita di Carmelo Bene, Carmelo Bene/Giancarlo Dotto, 1998). Ciò che il più delle volte è stato trascurato negli approcci critici che si sono succeduti è il “versante della fruizione”: Bene afferma di disprezzare l’immagine artistica in generale, cioè quell’immagine che difetta dell’atto, dell’immediato, che è riproduzione incessante dell’azione e, ancor di più, l’immagine in movimento, in cui la rappresentazione – a suo dire – è “elevata al quadrato”, giacché la mobilità interdice allo spettatore una fruizione che si dilati in-definitivamente nel tempo. Se ammette rare eccezioni (Bacon, Joyce, Bernini, Velasquez) nelle altri arti, sembra precludere invece al cinema qualsivoglia possibilità di immortalare l’atto, cioè di produrre un’immagine “estetica”, come rovesciamento e superamento di quella “artistica”. Ebbene, ciò che qui si è più volte affermato è che si possa dare anche nell’immagine in movimento, e soprattutto nel cinema di Bene, quel superamento tanto anelato. In alcune sequenze di Nostra Signora Dei Turchi e di Salomè (“il monologo dei cretini”, “la danza dei sette veli”, “la spellatura del volto di Erode Antipa”, e in tante altre in cui il brontolio dell’immagine-voce prepara, attraverso l’intervento dello spettatore, l’epifania) assistiamo al miracolo. Ma, per l’appunto, si tratta di assistere. L’interazione del fruitore diviene decisiva nel “perfezionare”, attraverso un giudizio riflettente (universalizzante), la “nuova immagine” che, per completare il movimento di rovesciamento, necessita di un certo atteggiamento: si tratta di smarcare l’effetto comico provocato dalla crudeltà esercitata dall’autore-attore, adottando un’ironia impietosa che, a scapito di quanto possa sembrare, corrisponde al massimo grado di eticità perseguibile. È nel rigore del silenzio che la comunità, nella persona di ciascun individuo che la compone, esercita un ruolo risolutivo non nella valutazione, ma nella determinazione (produzione) del valore dell’opera, in questo caso cinematografica.
E, per avvalorare, estendendola a tutta la settima arte, la teoria fin qui abbozzata, risulta assai prezioso l’esempio fornito dal prodigioso film di Krzysztof Kieślowski, Trois Couleurs: Rouge (1994), in cui, nelle sequenze finali, viene inequivocabilmente mostrata la neutralizzazione dell’immagine “spettacolare-artistica” (il cartellone pubblicitario che ritrae il volto della protagonista viene smantellato) e l’epifania di quella “etica-estetica” (la mdp riprende l’immagine della protagonista trasmessa alla televisione, dopo lo scampato naufragio): l’immagine guadagnata, attraverso una trasfigurazione, non è diversa dalla precedente (il profilo della protagonista è lo stesso, così come il rosso che fa da sfondo), ma la nuova contestualizzazione etica, ottenuta grazie alla serietà (e non santità), al giudizio, e all’adesione (fedeltà) dello spettatore ai valori-manifesto della celebre trilogia (libertà, uguaglianza, fraternità), ne muta il valore e la provenienza: è un’immagine fatta “non da mani d’uomo”, ma da tutta la comunità che, fruendone, ha compartecipato in maniera decisiva alla sua gestazione. Per suggellare quanto, seppur sinteticamente e approssimativamente, si è cercato fin qui di affermare, di grande soccorso risultano le parole di Enrico Ghezzi:«come Rosellini, Carmelo Bene accetta di fingere che il cinema finisca e si interrompa [….]», ma «Come il mondo è tondo e come un bambino sul pallone troppo grande e unto bisunto consunto scivola cade e grida, il cinema ruota, gira, cade, non è riflesso di nulla (si può se mai sospettare il contrario), merita di essere chiamato nel modo slittato in cui lo nominano alcuni bambini: cì-mena» (da la Fortuna Critica, in Opere di Carmelo Bene, 1995).
L’autore ringrazia vivamente Michele Bianchi per i decisivi suggerimenti forniti durante la stesura di questo breve saggio.
Luca Biscontini