CARNAGE (Francia/Germania/Polonia/Spagna 2011)
Un bambino rompe due denti a un compagno di scuola colpendolo con un bastone. Il giorno dopo i genitori di entrambi si incontrano in un appartamento dell’alta borghesia newyorkese per risolvere civilmente la situazione. Ne verrà fuori una – appunto – carneficina.
Un film molto interessante, questo Carnage. Vediamo perché.
1) Il regista è Roman Polanski. Fatto che, già di per sé, dovrebbe essere sufficiente per attirare al cinema frotte di cinefili. Il suo ultimo film, L’uomo nell’ombra, non era male, ma zoppicava qua e là, vuoi per una storia non originalissima, vuoi per un finale un po’ scontato, vuoi per un cast non del tutto all’altezza. Carnage è meglio, e ci consegna il Polanski più convincente degli ultimi vent’anni andando a fare il paio con Il pianista.
2) Non so voi, ma io adoro i film che rispettano le famose unità aristoteliche di luogo, tempo e azione. Motivo per cui vado pazzo per Nodo alla gola, per Una pura formalità, per Fuori orario ecc… Carnage si svolge interamente tra il salotto e il bagno di un appartamento, nel corso di poche ore. Pellicole di questo genere sono difficili da realizzare, richiedono una grande maestria registica e una sceneggiatura a prova di bomba che scongiurino i pericoli di noia e banalità. Polanski ha preso la pièce teatrale dell’autrice francese Yasmina Reza e ne ha fatto una pellicola perfetta. Con questo non intendo dire che Carnage sia uno dei film più belli che abbia mai visto, sebbene mi sia piaciuto molto, ma semplicemente che, per ciò che voleva essere, si tratta di un’opera senza alcuna sbavatura, calibrata al meglio in ogni suo elemento. Perfetta, appunto. Non è la prima volta, tra l’altro, che il regista polacco costringe i protagonisti di un suo film a starsene segregati tutto il tempo in un unico luogo. Si pensi ad esempio al suo bellissimo lungometraggio d’esordio, Il coltello nell’acqua, girato la bellezza di cinquant’anni fa.
3) Carnage ci prende un po’ in giro, sfidando la nostra credulità su un piano sottilmente intellettuale. Questo perché, nonostante il realismo di fondo, un’ambientazione borghese-occidentale-odierna e una premessa quasi banale, la sceneggiatura non offre allo spettatore alcun appiglio di verosimiglianza. Mi spiego meglio: quali espedienti narrativi possono essere utilizzati per rinchiudere in casa due coppie di non-amici per un intero pomeriggio, rubando loro ore preziose per lavorare, per sbrigare commissioni o semplicemente per farsi i cavoli propri? Non c’è che l’imbarazzo della scelta, direi. Il primo che mi viene in mente è la pioggia: un temporale inatteso, nessun ombrello, scarpe che si rovinano… Be’, allora restiamo ancora un po’ (l’espediente del maltempo è stato usato da Tornatore proprio in Una pura formalità allo scopo di tenere rinchiuso tutta la notte in una stazione di polizia il povero Gérard Depardieu. In quel film, tra l’altro, recitava lo stesso Polanski). Ma si potrebbero usare altri mille trucchetti: un taxi che non arriva, un ascensore rotto, una porta bloccata… E invece no, i quattro protagonisti di questo film rimangono insieme tutto il pomeriggio esclusivamente, si potrebbe dire, per esigenze di copione: se una delle due coppie se ne andasse il plot perderebbe ogni ragion d’essere. Perciò restano vicini, pur detestandosi e senza che la cosa sia in alcun modo necessaria. Qualcosa di simile a ciò che accade nell’Angelo sterminatore di Luis Buñuel, sebbene in chiave meno tragica e meno apocalittica. Anche il farsesco finale (la carneficina al suo culmine) è assolutamente e volutamente non realistico. Ci mancavano soltanto le torte in faccia.
4) Si è detto dei quattro attori protagonisti. Eccellenti, davvero ottimi tutti quanti. Vediamo perché nel dettaglio: a) Jodie Foster. La più antipatica del quartetto. Il suo personaggio, degno del miglior Woody Allen, è intellettualoide, buonista, banalmente “impegnato” (sta scrivendo un libro sul Darfur comodamente alloggiata nel suo attico newyorkese) e segretamente – ma nemmeno tanto – depresso e insoddisfatto. Tra tutte le interpretazioni quella della Foster mi è sembrata la meno convincente: troppe smorfie e faccette. Avessero recitato tutti come lei ne sarebbe venuta fuori una pellicola insopportabile come certe sitcom americane in cui gli attori strabuzzano gli occhi e storcono la bocca ogni quattro secondi. Ma per fortuna non è successo, e un quarto di manierismo isterico ci può anche stare. b) John C. Reilly. Strano che Polanski abbia scelto proprio lui, co-protagonista per eccellenza del cinema hollywoodiano, per un ruolo tanto importante. In ogni caso il brutto e bravissimo interprete se la cava bene nel dipingere un finto buono dall’animo sessista e dal bullismo represso. c) Kate Winslet. Perfetta, come sempre. Insieme a Natalie Portman è l’attrice migliore della sua generazione e qui lo dimostra ancora una volta, pur essendole stato assegnato il personaggio meno particolare e brillante – quello di una donna mediamente frustrata e senza grandi ambizioni. Il protagonista più triste, a ben vedere. d) Christoph Waltz. Doppiato malissimo, se la cava alla grande nella parte – spassosa – di un avvocato cinico e strafottente. Basterebbe questa interpretazione, insieme a quella altrettanto geniale di Inglourious basterds, per consegnarlo alla storia del cinema.
5) Gran parte della bellezza di Carnage risiede nella sua infinita serie di piccoli dettagli, particolari apparentemente privi di importanza che servono invece a conferire un riuscitissimo e necessario carattere “forte” a personaggi e situazioni: l’arredamento del salotto, i titoli dei libri, la quantità di roba in frigorifero e in dispensa, ma anche soltanto Jodie Foster che fa quattro rapidi saltelli diversi dai passi precedenti per raggiungere più in fretta la porta di ingresso o Christoph Waltz che passa alla moglie il secchio del vomito con i piedi per non toccarlo con le mani… È nell’abbondante presenza di simili piccoli particolari che sta la bellezza di film così piccoli, eleganti e preziosi. Altri elementi del film che mi sono piaciuti: l’ultimissima scena – in cui i piccoli litiganti chiacchierano amabilmente tra loro senza curarsi delle follie degli adulti – e le musiche, che si sentono soltanto a inizio e fine film, a metà strada tra John Adams e Philip Glass.
Alberto Gallo