Il Carnevale aveva senso quando non c’era.
Nel Club era invalsa la convinzione che se tutti avevano il diritto di travestirsi e fare un brutto tiro al prossimo, la nostra specificità veniva di colpo cancellata: perché quello era nostro dominio esclusivo.
Per esempio, Carmine e io ci eravamo mascherati da diavoli in piena estate. In sella alla mia bicicletta s’era percorso tutto il paese ululando come dei perfetti dementi, spaventando vecchi e bambini. Durante la processione del venerdì Santo, Massimo aveva rivestito un pallone da calcio con un volto di morto e l’aveva lanciato da un ballatoio: l’orribile testa era rimbalzata giù per il vicolo con gran clamore dei fedeli.
Per noi era sempre carnevale. Ci sentivamo in diritto di organizzare burle e giochi assurdi in ogni momento dell’anno.
Tuttavia c’era un modo per approfittare anche del carnevale canonico, quando il paese intero si metteva alla pari con la nostra follia. Potevamo mascherarci, in maniera da renderci del tutto irriconoscibili, e farci ricevere nelle case delle famiglie più misteriose del paese con il pretesto di chiedere dolciumi, unicamente per soddisfare la nostra curiosità. Eravamo capaci di bussare tre volte alla stessa porta camuffati in modo sempre diverso, e continuare imperterriti a ficcare il naso. I padroni di casa si dimostravano pazienti, ci accoglievano con vassoi di caramelle e nel frattempo studiavano i nostri occhi nel tentativo di capire chi diavolo fossimo. Nessuno di loro sospettava che dietro quella specie di califfo straccione che ingombrava il salotto, si nascondeva la stessa persona che era stata lì solo dieci minuti prima, travestito da alieno zampognaro. Prendevamo una caramella, assentivamo senza pronunciare una sola parola, e nonostante tutte le insistenze del mondo non accettavamo di svelarci fino a quando, e con un comprensibile fastidio, i padroni non ci sbattevano fuori di casa.
Ricordo in particolare le Tre Sorelle, nobildonne che vivevano in un antico palazzo con un’inferriata nera davanti al portone. Una di esse, la più giovane, era spesso in giro a fare compere e commesse. La sorella mezzana aveva invece una coda di capelli bianchi perennemente legata che spiccava sul vestito nero, e saettava con una vecchia automobile grigia verso destinazioni ignote. Infine la terza, la maggiore, trascorreva la sua esistenza nella vecchia casa e nessuno l’aveva più vista da anni.
Condurre una vita del genere in un paese come Sarconi poteva stimolare ogni genere di illazioni, e le Sorelle non sfuggivano alla regola. E così circolavano voci su commerci con oscuri personaggi napoletani, su un viavai di clienti fino a notte fonda, su letture di carte e oroscopi. E a conferma di tali riprovevoli attività, veniva additato lo sfoggio che le donne facevano di orecchini e girocolli sempre diversi.
In poco tempo i mormorii ebbero un’evoluzione inquietante, e si giunse a parlare di strane figure emerse dal camino della vecchia casa, di un gatto nero che assumeva all’occorrenza un volto femminile. Le leggende si concentrarono in particolare sulla sorella maggiore, la reclusa, della quale ci si interrogava se fosse ancora in vita o defunta da anni e anni, custodita come un simulacro magico dalle sorelle superstiti che ne conservavano le doti soprannaturali.
Di fronte a questo calderone di deliri, le nostre fertili menti non potevano restare tranquille. Massimo, in particolare, ne era ossessionato. La fantasia paesana si era insinuata nel suo cervello rifrangendosi in mille congetture e visioni, nelle quali pareva aver smarrito ogni ragionevolezza. Per lui le Sorelle erano streghe. La maggiore era il capo, viveva da mille anni e più, possedeva antichi libri di magia nera. A queste convinzioni non tardò ad associarsi una pericolosa mania di persecuzione: era convinto che la strega sapesse di essere stata scoperta e perciò aveva deciso di eliminarlo. Ogni giorno ne raccontava una, che gli era venuta in sogno tentando di strangolarlo nel letto, che aveva fatto saltare la corrente di casa per farlo ruzzolare lungo le scale, che aveva mescolato la varechina all’acqua di rubinetto per avvelenarlo.
Ora, qualunque persona di buon senso gli avrebbe consigliato di farsi vedere da uno bravo, come dicono nei film. Io gli proposi di giovarsi del carnevale per ispezionare la dimora delle Sorelle.
Trascorremmo un intero pomeriggio a passare in rassegna i nostri abiti vecchi e il campionario di maschere in dotazione al Club. Scegliemmo con cura gli stracci più orribili e pretestuosi; indossammo una maschera da vecchia balorda io, da gentiluomo con baffi a punta lui. Un camuffamento senza né capo né coda, come sempre, ma funzionale a un assoluto anonimato.
Nonostante fosse arciconvinto che la strega lo avrebbe scoperto e punito, la curiosità di Massimo era più forte di lui e in un baleno ci ritrovammo dinanzi all’inferriata nera.
Bussammo, e una delle tre rispose subito al citofono. Con voce alterata dichiarai: “Maschere”. Seguì una pausa; pensai che riservate com’erano, le donne non ci avrebbero mai ricevuto, invece udii spalancare una porta e la sorella mezzana, quella sempre vestita di nero, accorse tutta contenta ad aprire l’inferriata.
“Ma prego… che piacere mascherine!”
Dietro la sua faccia di plastica stile don Diego de la Vega, Massimo mi guardò con diffidenza. Seguimmo la donna in un ingresso freddo, lungo delle scale di pietra, oltre una porta, e facemmo ingresso negli appartamenti al primo piano.
“Venire, venite…” ci esortava. Era veloce come un furetto. Giungemmo in un grande salotto poco illuminato in cui aleggiava un forte odore di spezie. La donna ci indicò un sofà, ma eravamo troppo ingombri di stracci per riuscire a sedere, quindi chiamò con voce stridula: “Luisa, vieni! Abbiamo visite!”
Luisa irruppe da una porta foderata di velluto. Era la Sorella più giovane.
“Tooo, guarda! Ma chi saranno ‘ste mascherine, eh? eh?”. Venne a studiarmi la faccia da vecchia, dietro la quale stavo grondando di sudore, poi si rivolse a Massimo che istintivamente indietreggiò. “Non ti mangio mica mascherina!” esclamò la donna.
“Dolci!” annunciò la mezzana con la sua vocetta scordata. “Forza mascherine!” e ci offrì un plateau di pasticcini. Ne presi uno, lo stesso fece Massimo. Mentre si serviva mi fece cenno col capo. Lì per lì non capii.
“Ooh, Bravi!” disse Luisa sedendosi sul divano. “Allora, come va la raccolta di leccornie quest’anno?”
Feci cenno ‘così così’. Massimo annuì di rimando.
“Eh, che vuoi,” commentò la mezzana, “i sarconesi non sono tanto ricchi. Danno quello che possono.” E scambiò una risatina con la sorella. “Sapete che siete i primi a venire? Eppure a noi fa tanto piacere.”
“Ditelo ai vostri colleghi mascherati,” ribadì la sorella più giovane. “Vengano pure a farci visita!” E giù un’altra risata da cornacchia.
Iniziavo a sentirmi a disagio. Guardandomi intorno non notavo nulla di sospetto e confesso che provai una certa delusione. Fatto salvo per l’arredamento barocco, molto appropriato a delle vegliarde stravaganti in rotta con il mondo reale, non c’era proprio niente all’altezza delle nostre aspettative. Presi un altro pasticcino. Colsi un nuovo cenno di Massimo e stavolta osservai in direzione del suo sguardo. Vidi un tavolino ingombro di oggetti, collane arrotolate come serpenti albini insieme a svariati preziosi, più una boccetta di vetro molto simile a un alambicco. Dietro il tavolo c’era uno schermo di stoffa chiara, o forse carta di riso, oltre il quale doveva aprirsi un separé. Una luce rossastra proveniente dal separé dilagava per una buona metà del salotto, e nel riquadro dello schermo notai un profilo umano: sembrava una persona corpulenta seduta su una poltrona. Tutto lasciava immaginare che ascoltasse la nostra conversazione.
“E’ anche vero che spesso siamo fuori paese,” spiegava Luisa. “Ieri, per esempio, abbiamo trascorso tutto il giorno a Villa d’Agri per delle compere.”
“Gioielli,” precisò la mezzana. “Da ‘Gino Giò’. In quel negozio c’è il meglio del meglio.”
“Parole sante sorella mia.”
Adesso non facevo che sbirciare in direzione del separé. Notai che quella persona teneva un enorme gatto sulle cosce: la bestia riceveva le carezze senza muovere un solo muscolo.
“E allora non sappiamo se magari qualcuno è già venuto a bussare.”
“Però è bello che i giovani abbiano ancora voglia di fare queste cose,” commentò Luisa.”Eh, già. Credevamo che ci fosse tempo solo per videogiochi e discoteche.”
Anche Massimo non riusciva a resistere alla figura sullo sfondo della luce rossa. I suoi occhi ne erano attratti come una calamita.
“E’ nostra sorella Anna,” spiegò all’improvviso Luisa, che aveva notato quell’interesse. “Non può venire a salutarvi, non sta tanto bene.”
Io alzai una mano e mi lasciai sfuggire: “Oh, nessun problema.” E subito mi morsicai la lingua. Ma era troppo tardi: vidi gli occhi della sorella mezzana stringersi, con un sottile interesse, e quel volto annuire impercettibilmente. Mi aveva riconosciuto.
Avvertii una specie di ragno risalire lungo la schiena. Presi Massimo per un braccio, gli feci cenno di levare le tende.
“Oh, ma già volete andar via?” disse Luisa.
“Restate un altro po’ ”, aggiunse la mezzana con voce flautata, porgendo il vassoio di paste di mandorla, “prendetene ancora!”
Poi, come in risposta a qualche evento, da dietro lo schermo di stoffa avvertii un raschiare di gola e un colpetto di tosse.
Le due sorelle si zittirono. La mezzana mollò il vassoio sul tavolino e si alzò. “Comunque, se proprio dovete andare…”
Di colpo il sorriso le era scomparso dalla faccia; anche Massimo lo aveva notato perché mi lanciò uno sguardo interrogativo.
Mentre la donna ci precedeva verso la porta che dava sulle scale di pietra, mi voltai un momento. Luisa era rimasta nel salotto a guardarci andar via: e in quell’istante ebbi la sensazione che la donna, senza staccarci gli occhi di dosso, stesse indietreggiando a piccoli passi verso il separé.
Non vedevo l’ora di andarmene da lì. La mezzana era davanti a noi e non potevo certo scavalcarla, ma giuro che il tempo che impiegammo a scendere quelle dannate scale mi parve un’eternità. Fummo spinti fuori senza troppi complimenti e, una volta nel vicolo, Massimo alzò le spalle e se ne andò senza dire una parola.
Per due giorni rimasi chiuso in casa. Non stavo per niente bene, continuavo a sudare e fare strani sogni. Mi svegliavo nel cuore della notte con il cuore al galoppo e la sensazione di dita invisibili che si stringevano intorno alla mia gola.
Quando Massimo mi richiamò, e mi spiegò di aver sofferto un’indisposizione simile alla mia, sentii gelarmi il sangue nelle vene.
“Cristo,” esclamai. “Ci hanno avvelenato con la pasta di mandorle.”
“Stai diventando paranoico,” ribatté lui, serafico.
“Senti chi parla.”
“E’ che ne ho parlato con il medico, ho preso un’indigestione di dolci. Gli ho anche chiesto a che serve quella cosa. Forse ho capito tutto, la fretta di mandarci via eccetera eccetera. Non credo che delle streghe abbiano bisogno di..”
“Ma di che stai parlando?”
“La cosa sul tavolo, quello davanti al separé. Quella cosa che ti indicavo con gli occhi, no?”
“Credevo che mi indicassi l’ombra della vecchia.”
Ebbe un sospiro di insofferenza. “Speravo che l’avessi notata da solo, l’ombra. Io ti indicavo la boccetta. Avevo letto il nome sul vetro ma non sapevo che cosa fosse, così ho chiesto notizie al medico.”
Non riuscivo a seguire il suo discorso, e devo ammettere che stavo anche perdendo la pazienza. Così gli domandai: “Si può sapere che cosa c’era scritto sul vetro?”
“C’era scritto: Insulina.”