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Carnevale, Goldoni, la maschera e un sogno nella commedia dell’arte

Creato il 16 febbraio 2012 da Sirinon @etpbooks

Mi sono ricordato, complice il solito allegro avvicendarsi sempre più fitto delle info nel circuito dei blog, ch’oggi inizia il carnevale, con quel giovedì grasso di veneziana memoria e che si concluderà, mesto, martedì, per dare inizio (inizio dico io?, mi sembra un bel pezzetto che ci siamo) alla quarantena quaresimale.  E allora mi s’impone una maschera che, data la mia morfo-anatomia faciale devo necessariamente ripescare tra quelle della commedia dell’arte, ritrovando nella dimenticata accozzaglia di fogli, appunti, fotocopie e ciclostili che credevo perduti ormai nel tempo, anche oggetti non meno simbolici di quel periodo folle che tra Milano e Parigi mi avvicinò al teatro, quello ch’al tempo si diceva d’avanguardia o sperimentale ma che altro non era, per il nostro specifico caso, se non la rivisitazione di qualcosa che fosse veramente testimone delle vicende e del sentire popolare in chiave moderna.

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La commedia dell’arte, il Theatre du Soleil, Ariane Mnouckine, i miei studi e i miei ideali. E la maschera appunto, che, in questo contesto, serviva non a celare una identità ma, al contrario, a renderla universale, in quel completo ed assoluto anonimato in cui i più vanno a perdersi senza che una personale identità possa scaturir dalle fattezze, da una esteriorità che fisicamente e socialmente ben poco di originale portava con sé. 

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Ecco dunque che la maschera, nel cancellare tanta ovvietà ed insulsa ordinarietà cedeva il posto alla passione espressa da una voce priva della fisicità degli occhi e del naso, spesso anche della bocca e che poteva dunque, a buona ragione, reputarsi pura, cristallina, non inficiata da ciò che altro di osservabile e osservato, avrebbe potuto distorcere. Una forma antica di quella privacy che invero oggi si cela, essa, tra mille codicilli, lasciando invece a nudo ciò dalla stessa dovrebbe essere protetto. Ma chi se ne frega. Come se qualcosa di terribilmente privato fosse mai rintracciabile tra ciò che pubblicamente diamo in pasto al narcisismo della partecipazione. Mai visto un omicidio confessato né altro delitto, salvo quelli degli altri, per un esercizio non di confessione ma di delazione che, laddove a norma di legge, rischia di passare per patriottismo o per dovere civile. Sempre atti a rinfrescare la memoria e la coscienza altrui tanto che per goder del medesimo favore siamo costretti, non senza saperlo, ad esser ripagati della stessa moneta. Talvolta in un gioco perverso per il quale si architetta una titanica lotta tra il subconscio e l’io, l’uno che vuole, l’altro che pone il pudore, la ritrosia e la vergogna a tenero scudo contro l’invasore, divisi da una perenne lotta il cui equilibrio si chiama normalità e il disequilibrio genio o follia. Dimentichi sia del libero arbitrio che  della faccenduola storica per cui la caccia all’untore è finita con l’ultima peste che, salvo il vero, dalle nostre parti, terminò, dopo quella manzoniana del 1630, giusto un secolo dopo nel 1743 (peste che invero fu lieve al nord e della quale soffrì soltanto la città di Messina che subì una tremenda carestia, poiché venne messa  in isolamento, circondata da un cordone sanitario che non lasciava né entrare né uscire chicchessia). Ricordiamoci di questo 1743, perché è data galeotta per il nostro carnevale. La maschera dicevamo.
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Eccola infine, ancora là che mi guarda intraversata dall’ingombro di quel goffo nasone a ciliegia che, per quanto necessario, non le permette uno sguardo dritto e fiero ma ne incarna piuttosto, con le pieghe faciali che intagliano zigomi alti e paffuti e sopraciglia iperbolicamente inarcate, una figura che vive tra la meraviglia e lo sconforto, sospeso in quella indecisione che lo farà vittima sacrificale e sacrificata di ogni atteggiamento diamantino, tanto da dubitar se il mondo sia dritto o rovesciato. Ma è maschera fondamentale questa per la sua capacità di volgere verso l’introspezione così come nell’eccessivo slancio ridanciano, imprecisa, disordinata, pronta a curvarsi in sé come a esplodere nel gesto più elastico e proteso che possa, unitamente a passi lunghi e frettolosi, dimostrar gioia o contraffatto sdegno, ancora paura o un grido di vittoria. Era questo in fondo il personaggio chiave della commedia dell’arte e perché no, la sagoma, la forma primordiale dalla quale poi, tutte le maschere sono andate a formarsi. Quella costola divina dalla quale il lento delinearsi dell’universo dei caratteri umani si sarebbe modellato per definire i tratti, tutti, dei personaggi della vicenda umana. Si dia dunque inizio alla menzogna che della verità sempre più spesso, è ben più stimolante e ridanciana. Celati nell’universo dell’anonimato mascherato che per niente al mondo voglio che  quest’anno abbiano nulla a che vedere con augusti antenati come le anesterie o i saturnali (li trovate entrambi su wikipedia non temete), sepolti con  i fasti degli antichi, desidero invece che questi giorni ricordino quella più sottile trasgressione per le cui licenze, d’un bel randello armato (di fico come diceva il nonno, ch’a il pregio di piegarsi e non spezzarsi al primo colpo), posso, schiene inclite o meno, colpire a più non posso certo che l’indulgenza plenaria e l’amnistia mi saranno garantite unitamente. Il motto sarà “n’do cojo .. cojo” certo che se riuscissi ad intrufolarmi in un certo salotto, nulla o quasi andrebbe sprecato, nessun colpo andrebbe senza motivo a segno in quanto mal che vada sempre lo potremmo tacciar di prevenzione.  Acquisirebbe in fondo questo giorno e i prossimi a seguire dei panni nuovi e non più quelli di rivoluzioni lette e vissute. Niente servi e padroni, niente nobili e plebei, niente infine ricchi e poveri, ma solo quell’universo immenso e silenzioso dell’anonima normalità che per dei giorni - pochi in verità. Non potremmo allungar di qualche giorno? - potrebbe prendersi a diritto una rivincita che certo non ripaga né pareggia ma che almeno nell’intento, vorrebbe provar la sensazione che si sente nel calpestar chiunque passi accanto, senza farsene vanto, non per un disegno di predominanza o di possesso, ma solo per quella medica e scientifica ragione che lo stress è come una locomotiva alla quale occorre dosar la pressione, onde evitar della bile il travaso e di lacrime un vaso. V’è una festa ad esempio in piazza Syntgma giù ad Atene o un’altra ancora - di cui in verità sta tardando l’invito - che pare svolgasi in collina presso località Monte Ciborio o Citorio (mal si capisce la scrittura), ma non v’é indirizzo alcuno. Beh, ci sarà perbacco un vetturino con Landroid (che non è la nuova vettura della Rover né il nome del cavallo) che ci possa accompagnare.  Penso che alla maschera ch’è nera di rigore possa ben accompagnarsi una casacca ampia e leggera, di quella mussolina che oggi è solo made in China, unitamente a larghe braghe di tela, dal cavallo all’orientale, ben ampio, non per eccesso di stoffa quanto per quella libertà di movimento che - non si sa mai - una svelta ritirata potrebbe indurmi  a ben sfruttare tanto che, a parte una bella fusciacca color dell’oro ed un paio di Babbunner (le babbucce del runner) con suole in gomma di Malacca, altro proverò a non indossare. Il risultato lo so è quello del povero emigrante ma, di questi tempi almeno, si rende quasi d’obbligo una prova, un breve esperimento, che mai si può saper dove potrà portarci il vento.
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Ebbene l’ora è giunta che la nostra data, quella galeotta che fece terminar la peste, quel 1743 si presenti nel migliore dei modi con la presentazione proprio in occasion del carnevale de “La donna del garbo” una delle prime commedie di tal Carlo Goldoni, che, nell’occasione volle quasi rendere omaggio a chi, al tempo nell’anonimato era costretto, almeno quello della scienza e dell’intelligenza che, anche se eccezionalmente riconosciuta non era richiesta né in privato né in società: la donna.  In pieno spirito illuminista se vogliamo ed anche precursore di determinate istanze che saranno poi proprie della rivoluzione francese,  a sua volta oggetto, tra l’altro, di un indimenticabile spettacolo  dal titolo “1789” del Theatre du Soleil, del 1975, che rappresenta una delle pietre miliari della rivisitata commedia dell’arte (spettacolo ove si sviluppa la rivoluzione su più palcoscenici contemporaneamente).
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Ben cinquanta anni prima Goldoni, pubblicamente, in una commedia quindi, preparata in occasione della festa carnasciale, arricchita dunque di tutta quella simbologia che la maschera porta con sé, allestisce questa pièce, straordinariamente rivoluzionaria ed innovativa, sia per il mezzo espressivo che, soprattutto, per i contenuti. É la vicenda di Rosaura, detta Donna di Garbo ovvero di buone maniere, che, nella schermaglia con i vari personaggi, primo fra i quali il dottore (Balanzone?),  dà sfoggio non solo di cultura ma anche di tutte quelle arti femminili più naturali quali la seduzione che, unitamente al sapere, ne faranno un personaggio che avrà modo di sbalordire.  Sarà Goldoni stesso che, nella prefazione, ci avverte: “ … Due difetti sono stati da' Critici imputati a questa Commedia: l'uno, che il carattere principale della Donna di Garbo sia fuor di natura, avendola fatta comparir troppo erudita e troppo di varie scienze informata; l'altro, che non le convenga il titolo di Donna di Garbo, facendo ella la parte piuttosto di lusinghiera adulatrice femmina, che altro….”. Come se non bastasse, Rosaura è figlia di povera gente, schiaffo ulteriore all’allora pensiero comune che comunque, laddove si volesse riservare una eccezione, la stessa sarebbe andata in concessione ad una nobile rampolla o almeno figlia di gran professionista e non certo figlia di popolani ...”… se è difficile che si dia una Femmina dotta, cresce la difficoltà, essendo la mia Donna di Garbo una povera figlia di una miserabile lavandaia. Ma io replicherei francamente che gl'intelletti non si misurano dalla nascita, né dal sangue, e che anche una Femmina abbietta e vile, la quale abbia il comodo di studiare ed il talento disposto ad apprendere, può erudirsi, può farsi dotta, può diventare una Dottoressa; il che suppongo io essere accaduto nella mia Rosaura, appunto per esser figlia di una lavandaia che serviva d'imbiancare agli Scolari e a' Maestri della Università di Pavia, alcuno de' quali, invaghito forse del bello spirito della ragazza, la può aver resa ammaestrata ne' buoni principii: e chi ha talento, passa facilmente di studio in studio, e una scienza serve di scorta all'acquisto di un'altra…”.
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Prosegue dunque Goldoni. “..Io la voglio una Donna accorta, che i Lombardi volgarmente chiamano Donna di garbo; intendo di rappresentare il carattere di una Femmina la quale, benché dotta, pure è soggetta a tutte le umane passioni, delusa nelle sue speranze, ingannata dalle altrui promesse, e tradita nel proprio onore, a riparo del quale mette in opera tutti que' raggiri che suggeriti le sono dal sublime e fecondo suo spirito, e da quelle varie dottrine e cognizioni di cui è ella adorna …”. La commedia si sviluppa dunque nell’intreccio che via via viene a manifestarsi tra lo stupore degli astanti nel trovarla così erudita ed il desiderio, al contempo, di continuare a vederla come donna e, pertanto, a quei tempi (....!?), come oggetto unico di desiderio e fine ultimo d’essere moglie e madre, seppur concedendole quella libertà che il gioco amoroso dell’inganno femminile permette alle signore che, se poi son belle, possono esercitar anche senza blasone. Ma Goldoni vuole un vittoria completa contro la censura, il perbenismo e la morale, anch’egli in verità per sfogare un poco di rancore visto che questa, come altri scritti prodotti su richiesta e ad occasionem, erano al più votati a ripagare i debiti contratti, quasi una sorta di Mozart nostrano. Resta comunque la libertà illuminata del pezzo ed anche l’ardito epilogo che vuole, sempre facendo tesoro dell’amnistia concessa alle maschere in carnevale, una vittoria completa, della donna, della popolana, della maschera, dell’arte e della verità. Così Rosaura, nella chiusura arringa tutti: “…Tutti mi hanno detto finora donna di garbo, perché ho saputo secondare le loro passioni, uniformandomi al loro carattere. Tale però non sono stata, mentre l'adulazione mi ha fatto usurpare un titolo non meritato. Per essere una donna di garbo, avrei dovuto dire quello che ora dico. Alla signora Beatrice, che le donne savie si contentano dell'onesto, e la vanità delle mode rovina le famiglie. Al signor Ottavio, che il lusingarsi troppo della fortuna è una pazzia, e le cabale sono imposture e falsità. Alla signora Diana, che la finzione è dannata, e che la donna d'onore deve essere sincera e leale. Al signor Lelio, che l'affettazione è ridicola, e che il cavaliere non dev'essere millantatore. Al signor Momolo, che lasci le ragazzate, attenda al sodo, e non faccia disonore alla patria. Al signor Dottore, che il buon avvocato deve amare la verità, e non ingannare i clienti. Dirò altresí alla signora Isabella, che una moglie deve amare e rispettare il marito. Dirò al mio caro Florindo, che un marito deve amare e compatire la moglie. Dirò a tutti, che l'onore è piú della vita pregievole, che il far bene ridonda in bene, e che chi ha per guida la verità e l'innocenza, non può perire. Tutto questo a voi dico; e se vi pare che il mio dire meriti approvazione o compatimento, ditemi allora ch'io sono una donna di garbo”. Stupefacente  perché alla saggezza popolare s’unisce il risveglio illuminato del sentire progressista; innovativa poiché s’irride la vetustà di leggi e codicilli, pur’anco quel latino che ancora come arma era utilizzato ad intimidir la folla e il singolo villano per arrivare a denudar del tutto l’umana situazione d’uomo o di donna che fosse, tutti coloro insomma che la maschera hanno messo non per un gioco o per la ricorrenza, ma come sudario dietro al quale permettersi di essere ciò che non si è, cercando in fondo non solo di frodare il prossimo ma d’acquietar quell’io che potrebbe, mai non fosse, risvegliarsi, creando un problema di coscienza. Stavolta son partito ben per tempo. Protetto dal mio camuffamento che ora emigrante levantino, ora cittadino del mondo fa che mi confonda tra la folla. Vado cercando il mio signor Ottavio, il signor Lelio e Momolo ancora e infine il dottore e tutti gli altri, qual che sia il loro nome, che m’hanno fatto sudar sette camice e che ora, alfin, con il sacro randello di elastico fico, andrò a ringraziar, ignoto tra gli ignoti, rappresentante universale di questo mondo in maschera che fa sì che quaresima e carnevale si confondano, lasciando però sempre gli stessi nelle solite ampie seppur comode braghe, ch’avrebbero bisogno, in quanto tela, d’esser rammendate.


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